“La scrittura creativa nasce dall’applicazione della potenzialità creativa, presente in forme diverse, in tutte le persone e che consente di elaborare soluzioni nuove, inedite, originali, tratte dai vari contesti di vita, nella scrittura. E’ la fissazione di un significato, di un ricordo, di un’esperienza di vita, in una forma durevole. E’ una rappresentazione grafica della lingua parlata. E’ il mezzo più efficace, assieme alla fotografia, per la conservazione e la trasmissione della memoria.”
Come già annunciato stiamo raccogliendo adesioni per la partecipazione ad un corso di scrittura creativa, organizzato dall’Unitre – Volpiano, tenuto dal dott. Giordana Franco, giornalista, docente universitario della comunicazione allo IULM di Milano, nel mese di marzo le date sono il 5 il 12 il 19 il 26, ogni settimana, il giorno fissato é il giovedì dalle 15,30 alle 17, sono previsti quattro incontri, due sull’argomento “Parlare in pubblico” e due su “La scrittura creativa”.
Per ulteriori informazioni e adesioni rivolgersi a Margherita Bigano o a Franca Furbatto.
Questa canzone che vi propongo “Calabrisella mia”, é forse la più rappresentativa della Calabria. E’ la storia di due giovani che si incontrano alla fontana: la ragazza porta con sé il bucato da lavare e il ragazzo cerca di conquistarla, lodando la sua bellezza. Frasi semplici, ricche di sentimento, che assumono versioni diverse a seconda delle varie località della regione. L’autore rimane anonimo, le versioni cantate sono diverse, qui la ritroviamo interpretata da Mino Reitano, calabrese di San Pietro di Fiumara, che é stato un inconfondibile interprete della canzone italiana, in Italia e nel mondo, artista conosciuto per la sua esuberante vitalità e simpatia, profondamente legato alla sua terra, la Calabria appunto, da un amore struggente ed incondizionato.
E così siamo giunti in Calabria, l’estremo sud dell’Italia, la punta dello stivale, che raccoglie in una stessa vasta estensione coste sconfinate rocciose e spiagge sabbiose, pianure fertili, montagne suggestive, cupe selve, gole fluviali, cascate fragorose, asperità naturali e strapiombi che si immergono a picco nel mare sottostante. Una varietà incredibile di paesaggi. Ricca di cultura, tradizioni e di testimonianze delle sue antiche origini. Mi piacerebbe da anni poterla visitare, voglio trovare l’occasione per andarci assolutamente, é una regione che mi manca. Le sue immagini sono spettacolari e così pure le testimonianze di amici e colleghi.
Questa canzone é dedicata a Nenuccia, mia suocera, alla sua terra tanto amata, Calimera, che portava sempre nel cuore e alle sua genti che possiedono una straordinaria generosità d’animo, un forte senso della famiglia, tanta voglia di lavorare, anche a costo di duri sacrifici, una fortissima capacità di adattamento ed una contagiosa vitalità ed allegria. Parecchie volte le ho sentito cantare questa canzone, come altre (Matinata, Pai Pai, Tarantella…), che interpretava con una voce melodiosa e nostalgica.
Il canto vuole essere un omaggio intimo alla tradizione della Grecia Salentina, area del sud d’Italia in cui sopravvivono una lingua e una cultura di origine greca: il griKo. Il canto “Aremu rendineddha” descrive lo struggimento per la lontananza dalla propria terra, tanto amata. E’ una lingua melodiosa, dolce, che risuona tra stradine e corti, tra ulivi e campi di grano, sulle rocce in riva al mare, lungo le coste battute dal vento. La canzone qui é riproposta da un gruppo musicale, che ha portato avanti in questi anni, grazie al contributo di personaggi importanti nella tradizione musicale locale, lo studio di canti antichi, che si sono tramandati anche solo oralmente, di generazione in generazione, fino ad arrivare ai giorni nostri a permetterci di gustare l’essenza intima e struggente di questa terra e delle loro genti.
Il Salento é una terra antica, anzi una “pietra” antica, per la morfologia del terreno, per il dilavamento che le acque hanno operato in milioni di anni , per il vento e il mare che hanno battuto senza sosta le sue coste e scompigliato le sue dune di sabbia, piegando le fronde delle sue pinete. Gli ulivi che ricoprono il Salento con il loro manto argenteo, sembrano proteggerlo dal sole che abbaglia ed addormenta: ulivi contorti, antichi patriarchi che, anche se stanchi e malati, ancora cercano di tirare fuori l’anima della terra, come a non volere arrendersi. Una terra accogliente da sempre, generosa, una terra dove la parola “staniero” suona, essa sì, straniera. Così gli abitanti senza fatica, sono ospitali, ti danno subito del “tu”, favoriscono l’incontro tra le genti, lo cercano, come a soddisfare una naturale esigenza dell’anima. I segni della storia si accavallano, si confondono, si fondono, anche perchè si sono fermati in tanti lungo le coste; qualcuno ha dato molto, come i Greci, altri hanno solo depredato come i Turchi e i pirati saraceni, altri hanno conosciuto la loro rinascita, quando sono approdati stanchi e disperati su questi lidi. Nel cuore di questa terra, in uno scrigno di storia e di cultura, muti testimoni del tempo, raccontano le fatiche dell’uomo e della natura, ma anche tante storie di vite personali, di emigrazioni verso terre straniere, di lontananza, di nostalgia, ma anche di integrazione, di successi, di opportunità di lavoro, di incontri, di amori e di speranza.
Rosa Balistreri (Licata 21/3/1927 – Palermo 20/9/90), nacque da una famiglia molto povera e visse un’infanzia e una giovinezza nella miseria e nel degrado sociale, nel quale viveva l’intera Marina di Licata a quell’epoca. Rosa cantava per le vie del quartiere a squarciagola, la sua rabbia e il suo disagio. La famiglia si trasferì poi al nord, ma a quindici anni, ritornò a Licata, dove Rosa veniva chiamata per cantare in chiesa a battesimi e matrimoni, indossando per la prima volta le scarpe in vita sua. A sedici anni fu data in sposa, ma il suo matrimonio fu ancora più misero e squallido della sua infanzia, tanto da portarla, per una serie di avvenimenti negativi, in carcere. Superato questo triste periodo, incontrò il pittore Manfredi, con il quale visse per dodici anni, trascorrendo un periodo sereno e ricco di amore della sua vita. Ebbe inoltre la possibilità di incontrare personaggi dell’arte e della cultura famosi. Incise così il suo primo disco, tramite la casa Ricordi, iniziando così la sua carriera di cantautrice originale ed esecutrice di revival, riproponendo nei suoi spettacoli quel vasto bagaglio di canzoni appreso durante l’infanzia. A Bologna instaurò una seria e preziosa amicizia con il poeta dialettale Ignazio Buttitta e al cantostorie Ciccio Busecca che la aiutarono così ad entrare a pieno titolo nel mondo dello spettacolo, Partecipò allo spettacolo di Dario Fo, calcò le scene dei maggiori teatri italiani ed esteri. Nel 73 prese parte al festival di Sanremo con la canzone “Terra che non senti”. Accompagnò la Proclemer nel suo spettacolo teatrale in Italia “La lupa”. Partecipò attivamente fino all’87 a spettacoli e varietà. Nel frattempo si era ristabilita in Sicilia, a Palermo, dove morì nel 1990 nell’ospedale Villa Sofia, colpita da un ictus, tra il cordoglio della sua città e dell’Italia tutta.
La canzone “Terra ca nun senti” da il titolo all’album omonimo di Rosa Balistreri. sembra il resoconto della prima parte della vita della cantante, “vent’anni di turmentu cu lu cori sempri in guerra”. La vita così vissuta è una maledizione ed allora “malidittu dru mumentu ca grapivu l’occhi in terra” “maliditti tutti st’anni”.
La canzone è di forte impatto, esprime l’attaccamento alla terra di Sicilia, ma è anche un forte rimprovero a questa terra bella, ma desolata, che vede morire i propri figli, li vede partire emigrati e non fa niente. Il rimprovero è in effetti rivolto ai politici, alla miope politica sul lavoro, ai governanti di Roma che fanno languire questa terra piena di bellezze paesaggistiche, di risorse culturali non sfruttate; non resta altro da fare che piangere.
La canzone “Vecchia Roma” del 1951 é il rimpianto della Roma popolaresca che non c’é più, dei vecchi quartieri che hanno lasciato il posto alle nuove urbanizzazioni, del sistema di vita che é cambiato, dei rapporti sempre più difficili tra le persone. L’interprete é Claudio Villa, il reuccio della canzone italiana. Nato a Roma il primo gennaio 1926, a Trastevere, vero nome Claudio Pica. La famiglia é di modeste condizioni, il padre calzolaio e la madre orlista, tanto che il piccolo Claudio deve svolgere lavoretti di fortuna, per contribuire al bilancio familiare. Adolescente, comincia a cantare nei ristoranti e nei piccoli teatri, intanto studia canto alla scuola Principessa Mafalda di Via Cavour. Nel 1944 debutta all’Ambra Jovinelli con “Il cardellino” e il direttore del teatro gli consiglia di cambiare il cognome in Villa. E’ un successo, diventerà per tutti uno dei principali interpreti della canzone italiana e romana. Era dotato di una voce profonda, potente e squillante, ricca di sfumature leggere. Vinse quattro festival di Sanremo e calcò i palcoscenici di mezzo mondo. Purtroppo nel 1945 compaiono i primi segni di quel male che lo segnerà tutta la vita: la tubercolosi polmonare. Fu interprete di canzoni straordinarie come Buongiorno tristezza, Granada, Binario, Addio sogni di gloria, Vola colomba, Santa Lucia, Mamma, Terra straniera e tantissime altre. Il primo gennaio 1987, é colto da infarto, viene ricoverato a Roma e poi trasportato a Padova per un intervento a cuore aperto; morirà a seguito di complicazioni polmonari il 7 febbraio 1987. Pippo Baudo che presentava in contemporanea il festival di Sanremo ne diede costernato la triste notizia in diretta, tra lo sgomento del pubblico presente e di tutte le persone che lo amavano.
Odoardo Spadaro era nato a Firenze nel 1893 da una famiglia agiata. Dedicatosi agli studi di giurisprudenza, li lasciò presto per dedicarsi alla musica, sua grande passione. Nel 1927 si trasferì a Parigi, dove divenne presto l’attrazione del momento, al Moulin Rouge, a fianco di Mistenguette e Jean Gabin. Oltre ad essere cantautore, infatti era soprattutto un uomo di spettacolo, forse l’unico personaggio italiano del varietà così internazionale. Lavorò infatti anche a Londra e in Germania negli anni 30. Lontano dall’Italia, soprattutto durante il fascismo, scrisse nel 1938, all’età di 45 anni “Porti un bacione a Firenze”, dedicata alla sua città e ispirata senz’altro alla nostalgia per il suo Paese, nella sua qualità di emigrante, seppur di successo. Nel 1955 venne prodotto un film che portava lo stesso nome della canzone, interpretato da Milly Vitale e Alberto Farnese e dallo stesso Spadaro, che cantava la sua canzone. Interpretò parecchi altri film italiani e non. Fu selezionatore nel 1955 delle canzoni del Festival di Sanremo. Alla sua morte avvenuta nel 1965, durante i suoi funerali, i posteggiatori della città, per rendergli il dovuto omaggio, intonarono la sua canzone, che era diventata simbolo della città di Firenze.
L’abitudine di cantare in gondola permane tuttora, e lo sanno i turisti, soprattutto stranieri che adorano questi rituali, piuttosto costosi per le nostre finanze. Si tratta di canzoni eseguite dai gondolieri a Venezia, su vecchie arie settecentesche. Del vecchio repertorio delle ” cosiddette canzoni da batelo “, resta forse, solo “La biondina in gondoleta”, musicata da Simon Mayr, su testo di Anton Maria Lamberti, arrangiata poi da Beethoven per canto e piano assieme. Il testo era dedicato a Marina Querini Benzon, nobildonna veneziana, piuttosto conosciuta per la sua vita sentimentale tumultuosa. Le canzoni erano composte sia da dilettanti che da musicisti affermati, che ci tenevano, comunque, a mantenere il più stretto riserbo sulle loro composizioni. Erano un valido strumento di intrattenimento dei clienti, durante le passeggiate in laguna, nel settecento e lo sono tuttora. Le abitudini sono rimaste con testi e canzoni diverse. Nell’Ottocento la tradizione viene mantenuta viva e così nel Novecento, quando tutte le occasioni sono valide per dedicare serenate, diffondere testi romantici, citare poesie, o racconti che fanno conoscere al mondo il fascino di Venezia. Negli anni cinquanta, sessanta le canzoni si rinnovano con ritmi e sonorità diverse. Di questo periodo la canzone che proponiamo “Marieta, monta in gondola”, a due voci del maestro Bixio Cherubini, paroliere, poeta, editore musicale e autore di canzoni indilaetto e in italiano. Autore di canzoni famose come Violino tzigano, Mamma, Il tango delle capinere, Lucciole vagabonde, Miniera, Signora fortuna, Madonna fiorentina e tante altre. Originario di Rieti, interruppe l’università e il lavoro alle Poste per dedicarsi alla musica leggera, sua grande passione. A Roma conosce il compositore napoletano Cesare Andrea Bixio, con il quale inizierà una prolifica collaborazione. Nel 1952 in collaborazione con Carlo Concina, scrive il testo di Vola colomba, che gli vale la vincita al festival di Sanremo.
Mi é capitato per caso di imbattermi in questa triste storia, che vi voglio raccontare.
E’ la storia di Italia Donati (1863 – 1886), una ragazza toscana, nata a Cintolese, che avendo dimostrato una spiccata attitudine allo studio, fu indirizzata alla scuola Normale per maestri, dal padre, commerciante di spazzole. Dopo il superamento del ciclo di studi, al secondo tentativo passò l’esame di abilitazione e fu destinata a Porciano, nella campagna pistoiese. Da subito fu oggetto di pressioni ed avances marcate da parte del sindaco del paese e fu costretta ad abitare in un locale accanto alla dimora del primo cittadino. Nonostante le avances pressanti, riuscì a respingere gli attacchi e a porre un secco rifiuto. Alimentate dall’orgoglio ferito, il sindaco e alcune persone a lui vicine, misero in giro voci sulla scarsa moralità della giovane, fino a diffondere la notizia di un presunto aborto. A seguito di lettera anonima al magistrato di Pistoia, il sindaco fu costretto a dimettersi, e sebbene la Donati smentisse energicamente e si fosse trasferita nel frattempo in un ‘altra abitazione, le voci continuavano, attribuendole una relazione con il nuovo proprietario, accusandola di essere nuovamente incinta. A seguito di un’inchiesta, fu trasferita in una frazione , ma la popolazione le intimò di non presentarsi, perchè non accettavano “i rifiuti del paese vicino”. La ragazza profondamente segnata e depressa, lontano da casa, senza l’aiuto di nessuno cadde in uno sconforto totale che la portò ad un gesto sconsiderato: si suicidò in un deposito di acqua di un mulino il primo giugno 1886. Prima di morire lasciò una lettera a suo fratello, affinchè fosse fatta completa luce sulla sua innocenza e riabilitato l’onore della famiglia. Questo il testo: «Io sono innocentissima di tutte le cose fattemi […] A te, unico fratello, a te mi raccomando con tutto il cuore, e a mani giunte, di far quello che occorrerà per far risorgere l’onor mio. Non ti spaventi la mia morte, ma ti tranquillizzi pensando che con quella ritorna l’onore della nostra famiglia. Sono vittima dell’infame pubblico e non cesserò di essere perseguita che con la morte. Prendi il mio corpo cadavere, e dietro sezione e visita medico-sanitaria fai luce a questo mistero. Sia la mia innocenza giustificata.” Predispose inoltre che al suo funerale partecipassero solo bambini e bambine, compresi i suoi scolari. Fu sepolta nel paese tanto odiato di Porciano. Di lì a poco però il suo corpo fu traslato e condotto nel suo paese d’origine, dove fu sepolto a seguito di una sottoscrizione popoare. Il trasferimento del feretro fu accompagnato da ventimila persone, provenineti dai paesi vicini, per dimostrare la loro vicinanza ad Italia, pur nel suo estremo viaggio terreno. L’eco della vicenda si ottenne grazie al contributo del Corriere della Sera, che diede profonda risonanza al dramma. Anche la scrittrice Matilde Serao si occupò della triste vicenda. Il caso portò alla luce la triste condizione di queste donne, profondamente emarginate, sole, lontane da casa, senza l’affetto di parenti e amici, vittime dei soprusi di certe Amministrazioni comunali, dalle quali dipendevano e dal pregiudizio della gente. Con la legge Casati, infatti la competenza sulle scuole elementari e sugli insegnanti era demandatia ai Comuni, che ne stabilivano il salario, ridotto a 1/3, in caso di maestre, costrette ad occuparsi di classi numerose, miste: a volte fino a 150 bambini, dipendenti anche nell’alloggio dalle Amministrazioni, che potevano favorirti o danneggiarti.
Si dovette aspettare fino al 1911 per ottenere che le scuole passassero sotto lo Stato. Si può dire che anche la triste vicenda della sventurata maestra, Italia Donati, contribuì a portare avanti la campagna per ottenere la giusta definizione delle competenze.
Nel 2003 Elena Gianini Belotti ha pubblicato il romanzo Prima della quiete, in cui racconta la storia di Italia Donati
Gli autori di questa bella canzone dedicata a Genova, sono i” I TRilli”, un gruppo musicale nato nel 1973, riformatosi nel 2009. I componenti erano Giuseppe Deliperi (Pucci) e Giuseppe Zullo (Pippo). Il loro repertorio era fatto di canzoni in diaetto genovese e umoristiche, da cabaret. Nel 1984 parteciparono al festival di Sanremo con la canzone in italiano “Pomeriggio a Marrakech”, ma non raggiunsero le finali. Viene considerato il gruppo folk più popolare dei tempi moderni. Purtroppo nel 1997 viene a mancare improvvisamente Pucci a soli 55 anni, Pippo continua, da solo, la sua ricerca nella musica e nella tradizione ligure per altri dieci anni fino al 2007, quando anche lui ci lascia per un male incurabile, dopo aver tenuto concerti nel Sud America e in Giappone.