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SAGGIO DI TEATRO DELL’UNITRE

sabato 17 Maggio 2014

foto saggio
teatrofoto teatro 2014Ieri sera  nella saletta di via Botta  il gruppo di teatro dell’Unitre ha rappresentato  IL MALATO IMMAGINARIO di Moliere.

Testo non  sicuramente facile ma interpretato con grande naturalezza e bravura da questi nostri  associati che  con pazienza e caparbietà sono arrivati ad un ottimo livello di interpretazione.  Un grazie da tutti noi perchè   ci hanno fatto divertire e passare così una piacevole serata insieme.

Gli attori sono: ADRIANA, ANTONIO, CATERINA, DINO,   EMILIA, MARIA, MARIA GRAZIA  E PIETRO,  sotto la guida  di Federica dell’Officina Culturale di Chivasso.

BRAVI…. BRAVI.. BRAVI !!!!!!

Puliamo Volpiano tutto l’anno

venerdì 25 Aprile 2014

Sabato 26 aprile, ultimo sabato del mese, ci si ritrova per “pulire Volpiano”. Dovrebbe essere un appuntamento mensile, questa volta gli uffici si sono dimenticati di ricordarlo speriamo che se ne siano ricordati altri e di ritrovarci in parecchi a fare qualcosa per il nostro paese.

Essere di Volpiano vuol dire… non solo Facebook e una maglietta ma soprattutto fare qualcosa di concreto, tutti insieme (se possibile)

Giornata della Terra

martedì 22 Aprile 2014

earth_hour_2014_ora_della_terra

Oggi in 190 paesi del mondo oltre un miliardo di persone celebra la terra.

E in questa ricorrenza mi sembra indicato inserire questo racconto presentato a Moncalieri già nel Marzo scorso.

Vuole essere una testimonianza sulla sensibilità di alcune categorie di giovani di fronte ai problemi della devastazione del territorio,  in contrapposizione ad altre generazioni che tendono  a privilegiare argomenti goliardici, surreali, mangerecci…continuando a far finta di niente.

SI PARTE DAL PRATO VERDE

La sala riunioni era gremita. Tutti seduti e allineati con l’ormai inseparabile personal computer. Ognuno lavorava, o almeno fingeva di farlo, assumendo quell’atteggiamento da manager impegnato, adatto al ruolo che ricopriva.

Il presidente entrò tallonato dall’immancabile  consulente in abito gessato, che con il sorriso prestampato e statico, metteva in bella mostra una dentatura  da riporto, tipo squalo, in sintonia con la propria funzione.

Il Presidente, come amava farsi chiamare (lo trovava davvero gratificante) era in realtà il proprietario dell’azienda.

“Signori” esordì , dopo aver sortito il consueto silenzio reverenziale, “come ben sapete siete qui convocati per importanti scelte strategiche da adottare per la nostra azienda”

Elena, la giovane responsabile Marketing, volse gli occhi al soffitto e la sua eloquente espressione si poteva tradurre nella nuvola da fumetto che si formò  nell’aria: “quando il

Presidente esordisce con  la nostra azienda, marca male”.

“Mi aspetto che ognuno di voi presenti il proprio piano secondo le direttive contemplate nell’ordine del giorno che vi ho fatto pervenire “  continuò.

Scambio di occhiate  espressive tra i vari responsabili, dal chiaro significato:  “vai avanti tu che sei più importante e intanto io prendo fiato e coraggio”.

Iniziò il responsabile della produzione snocciolando dati e numeri collegandosi con il proprio PC direttamente alla lavagna  luminosa,  secondo le moderne tecnologie informatiche.

Seguì il direttore amministrativo, visibilmente consapevole dell’importanza del suo ruolo: le sue informazioni erano strategiche e rivelavano l’attivo e il passivo dell’azienda, la vittoria o la sconfitta, la speranza o la delusione. Si prese tutto il tempo necessario per guardarsi attorno, al di sopra degli occhialini, poi gonfiando il petto, sadicamente assunse un’espressione seriosa per comunicare alla fine che tutto funzionava. Il sospiro di sollievo, generale e liberatorio, testimoniò come la tensione fosse fin lì palpabile.

Venne il turno di Elena “l’immagine che l’azienda riveste sul mercato nazionale e internazionale è ……”Partiremo dal prato verde” esordì il segugio col gessato interrompendo la presentazione  di Elena che non fece nulla per mascherare il suo evidente disappunto.

“non ho bisogno di proiettare nulla, basta osservare questo disegno: il nuovo fabbricato sorgerà in quest’area strategica dal punto di vista logistico, e lì partiremo da zero con una nuova organizzazione e un nuovo modo di lavorare”

“Villano di un consulente  in-gessato” pensò Elena  “e poi che modi! Forse perché sono la sola donna presente:  certo,  ai suoi tempi le donne non erano proprio considerate!”

“L’azienda riceverà il manufatto da altre aree geografiche, Asia in particolare. A sinistra arriverà il materiale, nel fabbricato noi lo controlleremo, lo imballeremo con il nostro marchio e a destra uscirà  il prodotto finito da spedire ai nostri Clienti “, continuò il consulente, e via di seguito a illustrare le numerose operazioni che sarebbero seguite per collocare sul mercato un  prodotto competitivo oltre che valido.

“Chiaro e facile! “  Concluse. – “Ci sono osservazioni?”  Seguì un silenzio carico di tensioni dopo che alcuni avevano velocemente bisbigliato  mettendo la mano davanti alla bocca, quasi a nascondere  il loro divergente punto di vista.

Elena pensò che ancora una volta il mercenario in-gessato aveva elaborato un piano facile a dirsi ma non altrettanto a farsi, a lui poco importava, poiché  la parte attiva non gli competeva.

E prese la parola “ Non è una novità.  Già negli anni ottanta del secolo scorso i giapponesi per superare i dazi europei avevano inventato le cosiddette fabbriche cacciavite, che tanto danno hanno creato alle nostre aziende”.

“Cosa vuole sapere lei che all’epoca non era ancora nata. Vuole forse insegnarmi il mio mestiere?” ribadì l’uomo  piuttosto risentito.

“L’immagine aziendale sarà alterata, con pesanti ricadute sul piano commerciale ed economico” reagì Elena, con lo sguardo serio e la voce decisa di chi sfida il mondo con il coraggio di esporre la propria opinione.

Fu il Presidente a interrompere la discussione invitando tutti i partecipanti a farsi carico di quanto competeva a ognuno nel proprio ambito.

La riunione terminò con Elena  furibonda, era stata l’unica a contrastare il consulente. Tutti gli altri colleghi avevano taciuto.  Si era fatto ormai tardi, la giornata di lavoro volgeva al termine.

Tornò a casa. Se si può definire casa l’angusto monolocale che aveva preso in affitto, per essere vicina al posto di lavoro e dal quale si allontanava solo nel fine settimana per ritornare alla sua vera casa, lontana un centinaio di chilometri.  Poco più che trentenne, le costava sacrificio, economico ed esistenziale, ma si adattava di buon grado: quel lavoro la entusiasmava e le piaceva.

“Partire dal prato verde” che idea  assurda ! Non aveva appetito, andò a dormire ma il sonno non  arrivava.  Continuava a rimuginare  “ altro spreco di terreno, altre persone che perderanno il lavoro. Il semilavorato che arriverà dall’Asia (i ciucia-en-ciò ci hanno sopraffatti) significa il licenziamento di decine di operai in Italia. Questo è ovvio, anche se nessuno l’ha accennato. Che razza di ingiustizia…” e continuò a rigirarsi nel letto.

“Le statistiche dicono che in dieci anni in Italia è stata cementificata una superficie uguale alla Calabria. Lo stabilimento c’è, esiste. Perché rovinare quel poco di verde che ancora rimane?”

Si ricordò che quand’era piccola sapeva esattamente perché il sonno arrivava. Era l’uomo della sabbia che spruzzava sabbia fine-fine negli occhi e le palpebre si appesantivano,  si chiudevano e ci si addormentava.  “Avido uomo in-gessato,  non può andare in pensione come i suoi coetanei invece di fare danni?  Alcuni nel loro delirio di onnipotenza   perdono il senso della misura. Troppo comodo accanirsi contro i deboli per ridursi invece a zerbino con i  potenti  sperando di condividerne i privilegi”

Piuttosto che a un manager si sentiva di paragonarlo a un illusionista. Poiché un illusionista può ingannare uno scienziato, ma non può ingannare un altro illusionista.

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La cascinotta era ordinata e pulita, Mariuccia, unica superstite in quel luogo, era una donna semplice, vestita da contadina, portava un foulard che le copriva i capelli e indossava l’immancabile grembiulino che le risparmiava il vestito per quanto modesto.   Teneva qualche gallina rinchiusa sotto la grande tettoia dove un tempo si ammassavano fieno, frumento e paglia.

Nella stalla, ormai vuota, c’erano alcune gabbie di conigli, non che ne avesse bisogno per campare, ma quegli animali le tenevano compagnia, le ricordavano i bei tempi quando nel cascinale la vita ferveva, si lavorava in pieno e con il marito, buon’anima, si crescevano i figli e si raccoglievano i prodotti che quella terra, buona e grassa, forniva.

Allevavano anche il bestiame e la loro piccola azienda non li aveva mai delusi. Gli affari andavano bene, tanto che ebbero la possibilità di comprare alcuni terreni confinanti..

Ora che il marito non c’era più e i figli avevano  scelto un’altra attività, tutto era cambiato.

Negli anni alla cascina erano arrivate auto di grossa cilindrata dalle quali erano scesi faccendieri con i loro abiti gessati.  Volevano comprare i terreni per costruirvi  capannoni.

Mariuccia non avrebbe voluto cedere le sue proprietà, ma i figli… E le nuore, quelle “assatanate” di soldi.

Prima vogliono l’alloggio in città, poi quello al mare,  poi il SUV per andare a fare la spesa…Che spreco, che mondo!

Così, un po’ per volta, i terreni erano rimasti pochi. Al loro posto erano sorti capannoni. Cosa ci facevano lì dentro poi,  era un mistero!  Molti sembravano inutilizzati,  in altri si vedevano arrivare grossi camion da tutti i paesi del mondo che scaricavano e ricaricavano merci.  Di sera  era tutto fermo e abbandonato,  c’era da aver paura.

Per questo, quando il sole tramontava,  Mariuccia si chiudeva in casa, dove un vecchio fabbro aveva rinforzato l’uscio e installato le inferriate alle finestre. E lì aspettava, cercando di dormire, l’alba del giorno dopo.

Nel fortilizio di Mariuccia, trovava spazio soltanto Jack,  un cane meticcio non bello, forse neanche tanto intelligente, ma affettuoso ed educato, non sporcava in casa e soprattutto non mangiava le galline.

Quella notte un pensiero fisso e doloroso la tormentava al punto da non farla dormire. L’idea di vendere il prato lungo, era per lei una tragedia: l’ultimo vero terreno ancora integro. Lo faceva coltivare da un vecchio parente,  non lo avrebbe venduto per nulla al mondo, ma Laura  “quell’assatanata” di sua nuora,  aveva  turlupinato il marito al punto che, per la pace in famiglia,  anche Mariuccia capitolò.

Fu così che, suo malgrado, ricevette  la visita di un signore, non più giovane ma elegante e distinto nel suo abito gessato. Mariuccia firmò il compromesso  e ne ebbe in cambio un assegno di acconto che, manco a dirlo, finì nelle mani della nuora. A lei non rimase che guardare malinconicamente il terreno che ormai non le sarebbe più appartenuto.  Così va spesso il mondo…

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“Devo prendere un caffè prima di iniziare il lavoro, soprattutto dopo la notte insonne appena trascorsa” pensò Elena avviandosi alla macchina del caffè posta nel corridoio degli uffici.

Alfredo, il responsabile informatico, con fare da cospiratore,  le si avvicinò dicendo “Ieri sera ti ho apprezzata per il tuo intervento, non potevo appoggiarti perché, come sai, sono assunto a progetto e il mio posto di lavoro è precario, però ti garantisco che tutti i presenti erano dalla tua parte . Quel consulente  è  davvero un opportunista. “  “E come tutti i consulenti ha fatto l’illusionista” fu la replica di Elena, mentre progettava mentalmente di chiedere  al Presidente  maggiori delucidazioni . Così fu.

Il Presidente, con modi molto cordiali le spiegò che la riorganizzazione aziendale prevedeva la costruzione di un nuovo capannone che con le agevolazioni di legge non gli sarebbe costato nulla. Una società si sarebbe interessata a procurare il terreno e lui avrebbe ceduto, a sua volta , l’attuale stabilimento per la costruzione di un supermercato e abitazioni varie.

Elena esternò, senza indugio, il suo timoroso sospetto : “non potrebbe essere una grande speculazione edilizia voluta dal consulente ?”.  “Lo escludo, ho grande fiducia in lui. “

Fu organizzata una verifica sul posto alla quale Elena partecipò. Era quasi mezzogiorno quando arrivarono .  C’erano molti capannoni e in mezzo ad essi un bel campo coltivato a grano e,  data la stagione,  molto verde.

Elena immaginò i bulldozer che da lì a poco tempo avrebbero fatto scempio di tutto quel verde.

Mentre si inumidivano gli occhi vide una donna anziana scortata da un cane, anzi un brutto cane, dall’aria mite.  Si avvicinò, allungò la mano per accarezzarlo ma il cane intimidito si nascose dietro la padrona che guardandola dritto negli occhi disse: “Lei è una di quelli che vogliono comprare il terreno?  Cosa volete fare?  Altri capannoni?  Alla fine voi giovani dovrete sfamarvi con i capannoni e il loro cemento. Allora sì che vi divertirete, ma noi purtroppo (o per fortuna ) non ci saremo più.”

Elena si sentì percossa e frustrata nelle sue convinzioni.

“Venderò il terreno a quel  signore laggiù, ho già stipulato il compromesso,  per i capricci di mia nuora, una giovane come lei, sempre alla ricerca di denaro, quel denaro…

“A chi venderà il terreno?” trasalì  Elena “A quel signore in-gessato” rispose Mariuccia.

I sospetti di Elena presero consistenza. L’uomo che aveva la fiducia del presidente  non era che uno squallido speculatore.  Si consolidava l’idea di trovarsi in un mondo corrotto, privo di ogni etica, impantanato sempre più nella palude viscida e insidiosa del denaro dove chi riveste ruoli strategici, continua spudoratamente a raschiare il barile. Un’altra frase si insinuò nella sua mente “L’avidità è un pozzo senza fondo, che esaurisce la persona nello sforzo incessante di soddisfare il bisogno senza mai raggiungere la soddisfazione” (E. Fromm)

La corsa sfrenata al successo, il solo tornaconto personale, il cinismo, l’egoismo, hanno svuotato le persone di tutti i valori.  Si è persa anche la capacità di indignarsi e commuoversi.  Il rispetto, la tutela del futuro e di quel poco che è rimasto, sono considerate debolezze, mere utopie di gente fanatica. Non più sentimenti ma solo materialismo.

Forse fu solo la voce dell’ideologia giovanile, o semplicemente del buon senso quella che Elena percepì forte e chiara,  ma era una voce vera.

“Io non mi rassegno” fu la sua reazione istintiva. E con passo deciso, ben attenta a non calpestare il tenero grano appena spuntato,  s’avvio verso il Presidente.

Daniela Boscarato

MILLE ANNI DI VOLPIANO – STAFFETTA DA RECORD

sabato 19 Aprile 2014

SABATO 14 GIUGNO 2014   si terrà  al Campo Sportivo Comunale   una  STAFFETTA   in cui MILLE PARTECIPANTI  faranno correre al testimone mille cambi, attraverso mille numeri, uno per ogni anno della storia del nostro paese .

A chi sono aperte le iscrizioni?  A tutti quanti,con però un limite di età: potranno infatti presentare la propria domanda tutti gli aspiranti staffettisti  nati dal 1926 (compreso)  fino  al 2006 (compreso)

Anche L’UNITRE  SARA’ PRESENTE  pertanto  si invitano  tutti gli associati con amici parenti e conoscenti che intendono partecipare  a   prenotarsi in segreteria  indicando  un  numero preferito per il  pettorale (nel limite del possibile verrà tenuto conto della richiesta)

Teniamoci in forma……..  e prenotatevi …………!!!!

Iniziativa concorso letterario Moncalieri

lunedì 31 Marzo 2014

Vorrei condividere con gli amici del blog il racconto che ho scritto in occasione di un concorso letterario indetto dalla città di Moncalieri, aperto a tutti, su temi liberi edizione 2013 – 2014. L’iniziativa ha suscitato il nostro interesse, ormai da qualche anno e alcune di noi hanno partecipato con i loro elaborati. Due anni fa Daniela Boscarato aveva vinto il primo premio come miglior racconto a livello nazionale e internazionale, l’anno scorso ha vinto sempre il primo premio l’elaborato di Emilia Testù e ci sono state menzioni speciali per il racconto di Daniela  e  di Marina Borge. Tutti i racconti sono stati pubblicati nel sito. Quest’anno non abbiamo ricevuto menzioni particolari come sezione Volpiano, ma siamo state contente  comunque di partecipare. Inoltre da due anni il Comune di Moncalieri provvede alla pubblicazione di un volumetto che racchiude tuti i racconti che sono stati inviati, sia per la sezione racconti, che per la poesia. Brillante iniziativa che é stata apprezzata da tutti. Provvedo a pubblicare il mio racconto, invito Daniela, Marina ed Emilia a pubblicare i loro. Grazie per l’attenzione. Gradiremmo commenti.

PS  Se il prossimo anno l’iniziativa si ripeterà invito tutti coloro che lo desiderano a partecipare.

IL RITORNO A CASA

Era un ragazzo del 1919: sano, robusto, capelli castani, occhi azzurri, bel portamento, sempre sorridente, simpatico e gioviale, si chiamava Giovanni Battista, ma lo chiamavano ” Batistin” ed era mio padre. Abitava a Volpiano nel Canavese, in provincia di Torino. Dopo aver frequentato la sesta, si era recato a lavorare a Torino come muratore, così da contribuire al sostentamento della sua famiglia composta da padre, madre, due sorelle più grandi e un fratello più piccolo. Non aveva conosciuto altre due sorelline più grandi di lui, perché erano morte in tenera età prima della sua nascita. La sua era una famiglia di contadini.

Batistin si divertiva con i ragazzi della sua età, in paese si conoscevano tutti ed erano tutti amici. Lavorava tutta la settimana, sabato compreso, ma la domenica faceva festa. Insieme agli amici andava a ballare nei cortili delle case, si recava al cinema del paese, faceva gite in bicicletta, oppure, nei mesi caldi, amava sguazzare con i suoi amici, nei fiumi e nei fossati dove avevano imparato a nuotare. Batistin non aveva mai visto il mare, era un suo desiderio poterlo solcare un giorno e navigare su quella distesa immensa, di cui aveva sentito tanto parlare. Era vivace, bramoso di vivere, come tutti i ragazzi a quella età. Talvolta, con gli amici, andava alla “maroda” (andare di frodo) in campagna. Si trattava di raccogliere la frutta sugli alberi incustoditi , ma puntualmente spuntava il proprietario, munito di bastone, che li inseguiva: bisogna essere veloci per non essere presi e i ragazzi erano agili come lepri. Penso che il divertimento consistesse proprio in quella sfida : creare le condizioni per vivere un’avventura, consci del pericolo che correvano, ma pronti a darsela a gambe all’occorrenza. La frutta era solo un pretesto goloso. Le punizioni arrivavano comunque, perché il proprietario conosceva i ragazzi uno ad uno e immancabilmente avvisava i genitori dell’accaduto, i quali provvedevano regolarmente a saldare i conti.

Si trattava, in effetti, di divertimenti semplici: una gita in bicicletta verso qualche santuario, come Belmonte, Oropa, i balli sull’aia nelle case private, accompagnati dalla fisarmonica e in presenza di adulti, per garantire il regolare svolgimento della festa. C’erano poi i festeggiamenti per i Santi patroni del paese : i Santi Pietro e Paolo, la festa della mietitura quando si batteva il grano, la vendemmia in autunno, le scampagnate nei campi, le merende in Vauda in primavera. In inverno, disponendo della Vauda, i ragazzi scendevano dalla “rivàur” , una pista ghiaccio preparata per l’occorrenza e servendosi di artigianali slittini (lèsa) , si lasciavano scivolare fino alla attuale piazza Cavour.

Durante le lunghe sere invernali, nella stalla, gli anziani si ritrovavano per recitare il rosario, per commentare i fatti del paese o raccontare episodi accaduti, vicende di vita vissuta anni prima. Le donne filavano assonnate, le ragazze preparavano il loro corredo e i bambini erano i più attenti, si stringevano l’un l’altro per tenersi al caldo, incantati dalle parole dei nonni.

La vita di campagna era dura: non era l’orologio a segnare il tempo, ma il sole, perciò si lavorava dall’alba al tramonto e ognuno nella famiglia dava il proprio contributo, secondo le proprie possibilità. I genitori erano i primi a dare l’esempio, recandosi nei campi prima che il sole sorgesse e si ritiravano la sera dopo il tramonto. Tutta la famiglia seguiva la vita nei campi, sentendo così lo scorrere del tempo, il pulsare delle stagioni, impegnandosi giorno dopo giorno a dissodare, arare, seminare, estirpare erbacce, raccogliere e conservare. Lavoravano tanto, con fatica e sacrifici. Spesso i campi non si trovavano vicino a casa, pertanto per raggiungerli andavano a piedi, oppure, chi lo possedeva, usava il carretto trainato dalle mucche. I figli imparavano così che nulla si poteva ottenere senza impegno.

La fatica era tanta per tutta la famiglia: sia per chi lavorava nei campi, che per chi restava ad accudire i bambini, la casa, le bestie. Le difficoltà quotidiane, l’incertezza del raccolto, i sacrifici richiesti ,erano parte della loro vita, ma la gente era serena, si aiutava l’un l’altro e si divertiva con poco. I rapporti tra i vicini erano cordiali, legati da sincere amicizie. Le gioie e i dolori venivano condivisi. C’era solidarietà tra le persone: chi era più bisognoso veniva “adottato” dal borgo e tutti provvedevano, come potevano a fornire l’aiuto necessario.

La domenica le ragazze e le donne si recavano a messa “prima”, alle otto, per poter poi preparare il pranzo, mentre gli uomini, con la “muda (vestito) dla festa”, con il nodo alla cravatta, fatto regolarmente dalla moglie o dalla mamma, si recavano alla messa “granda” alle undici, il giorno di festa. Finita la messa si raccoglievano sul sagrato della chiesa in piccoli gruppi per chiacchierare e discutere, magari fumando un mezzo sigaro in compagnia. Le ragazze al pomeriggio frequentavano l’oratorio , dove imparavano il catechismo , seguivano i vespri in chiesa e la benedizione. Terminate le funzioni facevano una passeggiata per il paese e in certe occasioni particolari, come la festa dei Santi patroni, avevano il permesso di comprarsi il gelato, o qualche dolcetto.

Ma torniamo al nostro Batistin: il ragazzo nutriva una simpatia (così si diceva allora), da qualche anno per Giuseppina, una bella ragazza che abitava anch’essa in paese. Frequentavano regolarmente gli amici, uscivano in compagnia; di tanto in tanto, appena lei riusciva a liberarsi dalla presenza vigile della mamma, i ragazzi si riservavano qualche momento da soli ,dichiarandosi il loro amore. Giuseppina aveva sedici anni, Batistin diciotto, non erano fidanzati in casa, anche se le famiglie erano al corrente delle loro frequentazioni.

Purtroppo nel giro di pochi anni quell’armonia, quella spensieratezza svanirono e le cose cambiarono profondamente a Volpiano, come nel resto dell’Italia e nel mondo. Le scelte fatte dal governo e l’ascesa del regime fascista, portarono il Paese all’entrata in guerra nel 1940. E così tutti i ragazzi di leva furono chiamati a ”servire la patria “ e a compiere il proprio dovere.

Batistin, di leva nel 1939, fu chiamato come tanti suoi compagni, prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Ricevette due cartoline di chiamata alla leva: con la prima veniva convocato in caserma a Fossano la domenica mattina, la seconda invece diceva di presentarsi il lunedì sempre a Fossano. Volendo sfruttare ancora la domenica con la sua Giuseppina, Batistin decise di prendere in considerazione solo la cartolina che lo convocava per il lunedì. Scoprì poi, diversi anni dopo , che i ragazzi che si erano presentati la domenica in caserma, non lasciarono mai l’Italia, né il Piemonte, per tutta la durata della guerra, mentre lui con altri suoi commilitoni, che si presentarono il lunedì, furono destinati alle “trasmissioni” e il loro reparto ,dopo alcuni mesi di addestramento, fu inviato a Bari e poi imbarcato per la Jugoslavia. Sfortuna? Destino? Chi può dirlo! Certo il giovanotto non sapeva ancora che lo aspettavano cinque anni di guerra durissimi, lontano da casa, tra mille avventure e pericoli; non immaginava certo, che cosa volessero dire il freddo e la fame, l’internamento ,le umiliazioni e le privazioni che avrebbe subito nei campi di prigionia. Quel mare che tanto aveva desiderato vedere e attraversare, gli avrebbe però impedito per anni, di poter ritornare a casa , se non a guerra finita.

E così Batistin, come molti altri ragazzi della sua età partirono intrepidi , incontro al loro destino. Nei primi anni riuscì a spedire alcune lettere dal fronte, accompagnate da fotografie che lo ritraevano nei boschi, oppure la fotografia della nave che li portò in terra straniera. Il ragazzo avvisava che stava bene e che le giornate scorrevano veloci, poi le notizie diradarono, fino a scomparire del tutto, lasciando posto ad un angosciante silenzio che durò anni.

La guerra si era impossessata, senza chiedere permesso, delle vite di quei ragazzi, delle loro famiglie: aveva rubato loro la giovinezza, li aveva privati della libertà, cancellando i loro sogni.

Le condizioni dei familiari a casa non erano meno drammatiche: cresceva la paura, si insinuava la diffidenza, l’odio, il rancore. I lavori nei campi, affidati alle donne rimaste sole, languivano, cresceva la miseria e la solitudine, anche se il regime manifestava soddisfazione per i successi militari a fianco della grande Germania.

Non sono in possesso di molte informazioni sui primi anni di guerra di mio padre, ma presumo che occupandosi di trasmissioni, la loro unità fosse impegnata soprattutto a costruire ponti radio e quindi si spostasse con frequenza da un posto ad un altro, tant’è che mio padre mi parlava di diverse città in cui era stato : Spalato, Sebenico, Durazzo, Tirana, Valona, Dubrovnik.

Successivamente ai fatti dell’otto settembre, le sorti dei soldati cambiarono; e Batistin con altri compagni furono catturati dai “titini” e internati nei campi di prigionia, in condizioni di profonda miseria, costretti a lavorare duramente, sostenuti da porzioni di cibo inadeguate, ridotti a contendersi le bucce delle patate tra loro. Erano sorvegliati a vista da carcerieri, altrettanto affamati e stanchi, irritabili e violenti, sempre pronti ad usare il coltello e a bastonare i prigionieri. Era indispensabile non mettersi in evidenza, cercare di non farsi male, né ammalarsi, perché sarebbero stati soppressi senza nessuna pietà. Le condizioni migliorarono, pur rimanendo prigionieri, quando furono ceduti ai tedeschi, i quali disponevano di mezzi e finanze diversi.

Batistin, come tanti altri ragazzi, portava con sé sempre, una foto del suo Amore: Giuseppina, perché lo illuminasse nei momenti bui di sconforto, perché gli desse la forza per andare avanti e per non perdere mai la speranza di poter tornare un giorno a casa.

Naturalmente faceva vedere la foto con orgoglio ai suoi compagni e così a loro volta essi mostravano le foto delle loro innamorate. Quante volte avranno parlato, scherzato tra di loro, in quelle lunghe notti all’addiaccio, braccati dalla fame e dal freddo insistente. Avranno raccontato delle loro case, della loro terra, dei loro affetti, dei loro sogni, per riuscire a vincere la nostalgia struggente che li tormentava. Mio padre mi parlava delle notti d’estate calde, afose, trascorse in Albania a guardare le stelle e ad ascoltare il suono di una fisarmonica, di un violino che suonavano lontano. I prigionieri si perdevano nell’ascolto di quelle melodie e ripensavano alla propria terra e alle persone lontane. Non a caso, papà, amava ascoltare, anni dopo, la canzone “Violino tzigano”, perché gli ricordava quelle notti piene di tristezza e di malinconia, in cui la nostalgia di casa era straziante.

In realtà mio padre nei suoi racconti, non ci parlò mai di violenza, di morte. Erano spesso ricordi divertenti, legati alla ricerca incessante di cibo: episodi in cui aveva trattato con i contadini per qualche patata, oppure quando si era offerto come macellaio ai tedeschi, per la sola associazione macellaio – carne, senza aver mai fatto quel mestiere. In effetti fu assegnato in cucina a spolpare ossa di vitello, riuscendo anche a saziarsi, con il benestare dei tedeschi. Ci raccontava le parole che aveva imparato in slavo e in tedesco, di come riusciva a formulare discorsi semplici nelle due lingue e a comprendere cosa dicessero gli uni e gli altri. Ci descriveva il territorio, i paesaggi, la povertà della popolazione locale, il profilo delle coste italiane, nelle belle giornate limpide, apparentemente così vicine, ma irraggiungibili.

Eppure mia madre ci raccontava che, nei primi anni di matrimonio, spesso papà si svegliava in preda ad incubi atroci, tutto sudato, gridando: nei suoi occhi poteva leggere la paura, ma anche in quelle occasioni, Batistin non riferiva mai che cosa stesse rivivendo. Ci volle del tempo perché quegli incubi sparissero del tutto.

Più grande, non sono più tornata sull’argomento guerra e prigionia, ma penso che papà non avrebbe raccontato niente di più di quello che ci aveva narrato da bambine, probabilmente per proteggerci, per difenderci da quel mondo crudele, per non inclinare la nostra fiducia negli uomini, nella loro capacità di perdonare e nelle loro infinite risorse.

Con tante domande senza risposta, purtroppo, qualche anno fa mi recai in Croazia, proprio per vedere i posti di cui avevo sentito parlare da papà, per ripercorrere quelle strade, alla ricerca di chissà quali rivelazioni, o forse solo per conoscere quei luoghi, per poi condividere con mia madre emozioni e ricordi.

In una di queste mete, capitai in un ristorante tipico: ero assorta nei miei pensieri, rivolti proprio a mio padre, mancato parecchi anni prima e al mio rammarico, di non poter condividere con lui quella bella vacanza. Fu allora che un uomo vestito con i costumi locali, che suonava il violino, si abbassò su di me, intonando le note di “Violino tzigano” e mi disse: “Conosce questa canzone? E’ dedicata a Lei!” Io sorrisi, e gli dissi che l’avrei ascoltata volentieri, perché quel brano era la canzone preferita da mio padre, ed era come se me l’avesse dedicata lui.

Arrivò finalmente la fine della guerra e il ritorno a casa dei soldati. Posso immaginare l’ansia, la trepidazione, l’attesa che potevano provare le donne che aspettavano il ritorno dei loro uomini.

Batistin fu tra gli ultimi a ritornare. Arrivò a fine maggio del 1945 a Volpiano. Era stato liberato dagli alleati e imbarcato qualche tempo prima, dal porto di Valona, destinazione Bari su una nave militare, con altri suoi compagni. Giunti a Bari furono accolti in un campo di accoglienza gestito dalla Croce Rossa, dove furono curati, rifocillati, ripuliti e rivestiti. Passarono qualche settimana nel campo e poi furono congedati e forniti di salvacondotto per ritornare a casa. A piedi, sui treno merci per certi tratti, sui carri, con mezzi di fortuna, aiutato dalla benevolenza della gente, Batistin attraversò l’Italia da sud a nord per giungere finalmente a casa.

Appena giunto in paese, si recò a salutare sua sorella Laurina, a cui era particolarmente legato, e qui conobbe la sua bambina Anna, nata durante la guerra, poi a casa sua, in Via Roma. Quanta commozione e tenerezza nel riabbracciare le persone amate, riunite tempestivamente nella casa paterna: sua madre, suo padre, le sorelle, suo fratello. Si ripulì velocemente, si cambiò d’abito e poi corse volando verso casa di Giuseppina, mia madre, con il cuore che batteva all’impazzata. Certo conosceva i sentimenti di lei, ma erano passati tanti anni, senza notizie: le cose potevano essere cambiate profondamente. La guerra aveva cambiato tutto. Anche lui era una persona diversa: un uomo, non più un ragazzo, come quando era partito spensierato. Era stato un soldato che grazie all’aiuto del Signore e tanta fortuna, ritornava a casa sano e salvo, dopo aver combattuto per la sua patria. Era riuscito tra mille difficoltà e interrogativi a mantenersi lucido: ora voleva solo lasciarsi alle spalle quella inutile sofferenza, quei fatti dolorosi e iniziare a vivere con il suo Amore. Erano stati lontani troppo tempo.

Intanto la notizia del suo ritorno si era già diffusa in paese. Giuseppina si stava recando con suo padre in un campo a Bendola, sulla strada nuova. Batistin, avvisato, li rincorse in bicicletta e li fermò. Si incontrarono così, per strada: si abbracciarono, piansero, risero, si strinsero forte, quasi a non voler più liberarsi da quella stretta. I loro cuori battevano finalmente vicini. I capelli di lei profumavano di grano: Batistin affondò le sue dita tra quei capelli e poi cingendola in vita, la sollevò in alto, girando su sé stesso, sotto lo sguardo compiaciuto del padre di Giuseppina. Avevano tante cose da raccontarsi, tanti progetti da realizzare, ma sapevano di avere davanti a loro tutto il tempo che volevano. Restarono in silenzio, abbracciati, un tempo indefinito, adesso volevano solo godersi appieno la felicità di essersi ritrovati.

Franca

EVENTO DI SOLIDARIETA’

giovedì 27 Marzo 2014

ccmL’UNITRE di Volpiano  con il patrocinio di Comune e in collaborazione  della compagnia amatoriale  QUINTAPERTA  organizza una serata teatrale benefica  a favore del  Comitato Collaborazione Medica    CCM  per:

SABATO 12 APRILE   alle ore 20,45  presso la Sala Polivalente di Volpiano

Titolo;  LA PAROLA AI GIURATI di Reginald Rose  – traduzione italiana di Giovanni     Lombardo Radice

Ingresso euro 7=

SIETE TUTTI INVITATI  – PASSATE PAROLA  ………………I

L’opera di Guglielmo da Volpiano all’Europa

lunedì 17 Marzo 2014

In questi giorni è stata inaugurata a Volpiano, presso Palazzo Oliveri, la mostra dedicata a Guglielmo da Volpiano, alla sua vita e alle sue opere. Questo nostro illustre concittadino, abate, vissuto a cavallo dell’anno 1000 ha dedicato la sua vita a testimoniare la sua fede, prestando la sua opera in numerosi monasteri in Italia, in Francia e nel resto dell’Europa. Personaggio ecclettico, dotato di forte personalità, intelligenza, dinamismo e rigore, ha viaggiato molto in vari stai europei; si è recato nove volte in Italia, Roma compresa, per portare la sua opera riformatrice.

E’ stato architetto, ingegnere, musicologo, educatore, personaggio estremamente versatile; capace di opere grandiose, come la ricostruzione della cattedrale di Digione o della costruzione dell’abbazia di Fruttuaria sulle sue terre.

Ma non voglio qui raccontarVi la vita di Guglielmo, voglio invece invitarVi a visitare la mostra aperta dal 26 marzo all’8 giugno tutte le domeniche dalle ore 10 alle 12,30.

La mostra è costituita da otto pannelli che illustrano l’opera di questo grande uomo e da otto dipinti realizzati dalla pittrice Lella Burzio che raffigurano i momenti più significativi della sua straordinaria vita.

La realizzazione di questa mostra é stata possibile grazie all’opera costante e approfondita degli amici dell’Associazione culturale “ Terra di Guglielmo “, che da dieci anni a questa parte lavorano alla valorizzazione e conoscenza di questa straordinaria figura. Nel 2009, grazie ad un bando provinciale, è stata realizzata una biblioteca storica, a palazzo Oliveri, accentrata principalmente sull’anno 1000, sul monachesimo, sul nostro territorio e sulle terre di Guglielmo; arricchita con opere importanti e preziosi volumi, nonché da libri recenti a disposizione dei cittadini. Determinante è stato, ancora una volta, il contributo della Provincia, per la realizzazione dell’attuale mostra, allestita per dare visibilità in forma permanente alla figura di Guglielmo e alla sua opera, testimonianza significativa che si integra perfettamente alle iniziative intraprese per festeggiare i mille anni della fondazione di Volpiano.

Franca Furbatto

INAUGURAZIONE MOSTRA DI GUGLIELMO DA VOLPIANO

lunedì 17 Marzo 2014

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GLI AUGURI DEL GRUPPO DI BALLO UNITRE

sabato 25 Gennaio 2014

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Sono foto di alcune persone che frequentano il corso di ballo dell’Unitre che hanno partecipato alla visita nelle case di riposo Arnaud, San Francesco e Anni Azzurri portando agli ospiti non solo un piccolo pensiero natalizio ma tanta allegria entusiasmo coinvolgendo tutti con canti e balli.

Altre foto su www.unitrevolpiano.it

RE MAGI

giovedì 23 Gennaio 2014

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