Archivio della Categoria 'Considerazioni'

GRAZIE ….. ai volontari Unitre

mercoledì 11 Maggio 2016

Ecco alcuni  volontari  del GRUPPO DI RESTAURO   che hanno terminato il  grande progetto ” Conservazione e restauro banchi e sedie della Cappella di San Rocco”

Bellissimo gruppo, impegnato e disponibile che con la docente Maria Pacino  hanno fatto un lavoro veramente eccellente !!!

Un GRAZIE  speciale dall’Unitre ,dall’  Associaz. SanRocco e  da me (  Volpianese da sempre)Restauro 1Restaruro 2Restauro 3

Quando Nardò accoglieva gli ebrei in fuga

domenica 24 Aprile 2016

santa maria

“Vorrei esprimere la mia gratitudine al gran popolo italiano. Io ed altri 1.500 ebrei jugoslavi perseguiti dai nazi durante la seconda guerra mondiale siamo stati salvati dal governo italiano. Prima della fine della guerra ci hanno trasportati a Bari e dopo a Nardò, a Santa Maria al Bagno. I ricordi di quei posti hanno lasciato un’ impressione indimenticabile nella vita. La gentilezza degli abitanti, le bellezze naturali, vigne, spiagge, non dimenticherò mai ”.

” Nel Salento ci sono pezzi di storia poco conosciuti o dimenticati dai più. Il profugo ebreo Jakob Ehrlich, con queste parole, ce ne dà una conferma e allo stesso tempo riporta alla luce una bella pagina di storia di questo territorio. Una storia di accoglienza, vera. Dal 1944 al 1947 a Santa Maria al Bagno fu organizzato un grande campo profughi, conosciuto come n°34 o con la denominazione di Santa Croce. La preparazione del campo fu inizialmente opera degli inglesi, in seguito coadiuvati dall’UNRRA (United Nations Relief Rehabilitation Administration). Le istituzioni organizzarono l’accoglienza requisendo anche le case e le ville adoperate dai neritini per le vacanze, nelle quali furono ospitati i rifugiati. L’obiettivo era quello di far confluire, in un posto sicuro, la massa di profughi ebrei che fuggivano dalla persecuzione nazista.
In quegli anni Santa Maria al Bagno si trovò letteralmente invasa da questa moltitudine di fuggiaschi ( il campo arrivò a contenere sino a 3.000 rifugiati) di varie nazionalità: turchi, russi, greci, lituani, ungheresi. Uomini, donne e bambini che furono internati nei campi di concentramento e che vissero sulla propria pelle la follia nazista. Per loro Santa Maria al Bagno doveva essere solo un punto di passaggio prima di approdare nella “terra promessa”: la Palestina. Ma la permanenza si rivelò più lunga delle attese, sopratutto perché allora gli inglesi non erano favorevoli alla formazione di uno Stato di Israele.
Presto però Santa Maria al Bagno dimostrò di essere più di un “ghetto dorato”, con il mare che pareva una lastra di vetro al rispecchiare dei raggi solari, con le ville, la natura. Un paesaggio armonico che si conciliava perfettamente con la gentilezza degli abitanti del posto. Quest’ultimi non venivano da un periodo facile, era appena terminata la guerra, la maggior parte della popolazione viveva in uno stato di povertà. Ma alla fine del ’44 e per tutto il periodo di cui parliamo, la vita cominciava faticosamente a farsi strada verso una nuova normalità: le persone si riappropriavano di una vita sociale, ricominciavano le feste, i riti religiosi, il lavoro.
L’emergenza profughi che colpì in pieno il territorio e gli abitanti di Santa Maria al Bagno fu, in un certo senso, l’ultimo conto presentato dalla Guerra a Nardò. Inizialmente la diffidenza fu tanta. Volti scavati, duri, bocche chiuse, atteggiamenti schivi. Facce che parevano aver vissuto l’inferno, dal quale non ci sarebbe più stato ritorno. Questo fu il primo contatto tra due popoli coinvolti in una stessa guerra, certamente vissuta in maniera diversa , ma che adesso si trovavano insieme sotto lo stesso tetto, nella stessa piazza. La diffidenza però fu superata in fretta, lasciando il posto alla solidarietà. Presto si crearono comitive di amici formate da autoctoni e profughi, si andò insieme al mare, al cinema, a cena. Sbocciarono i primi amori, sia nel campo ( furono 400 i matrimoni tra profughi celebrati a Santa Maria al Bagno) sia tra rifugiati e neritini. Alcuni di questi rapporti sentimentali durano tutt’ora. Per le cerimonie furono messi a disposizione dalle persone del posto i loro abiti nuziali, adattati e rimessi a nuovo, un bel gesto di fraterna solidarietà.
Anche l’organizzazione dell’accoglienza da parte di chi governava fu impeccabile, sul piano materiale non mancò niente ai profughi. Inoltre, man mano che i rapporti tra le due popolazioni diventavano sempre più amichevoli, il campo veniva dotato di maggiori servizi e strutture. Insomma più che un campo sembrava un piccolo centro abitato: vi erano tre mense, due sinagoghe, un ospedale, un ambulatorio medico e uno studio dentistico. In una località ( attuale villa de Benedittis) si celebravano matrimoni, si svolgevano concerti, spettacoli teatrali e feste da ballo.
Non è un caso se a distanza di decenni quegli stessi profughi si ricordino ancora di Santa Maria al Bagno come di un posto dove sono rinati. Dopo aver visto i propri simili essere introdotti nei forni crematori, subito umiliazioni, assistito a fucilazioni di massa, a Nardò, a Santa Maria al Bagno, quegli stessi profughi hanno riscoperto di essere persone. Delle persone che adesso sono eternamente grate agli abitanti e alle istituzioni di Nardò.
Da questa gratitudine, espressa principalmente in numerose lettere di riconoscenza, la memoria di quell’esperienza è rimasta viva anche dopo la chiusura del campo. Per quell’accoglienza nel 2005 il Presidente Ciampi conferì alla città di Nardò la Medaglia d’oro al Merito Civile. Non solo. Tutte le sensazioni sopra descritte è ancora possibile viverle nel Museo della Memoria e dell’Accoglienza di Santa Maria al Bagno, gestito dall’Associazione Tic Tac. Una struttura inaugurata nel 2009 e interamente dedicata a quell’esperienza.
Lo scorso martedì , come spesso accade, il museo è stato visitato da un gruppo di ebrei. Un uomo, nato anch’egli in un campo profughi, ha pianto alla vista di alcune foto affisse sulle pareti. Girando tra le mura del museo l’emozione è palpabile, un nodo ti si stringe in gola alla vista di una carta d’identità marchiata dal Reich con una grande J rossa che stava ad indicare “Juden”, Giudeo. Tre grandi murales, ritrovati in una vecchia casa dell’epoca, raffigurano tre diversi momenti dell’odissea dei profughi: il bisogno di una patria, la lunga migrazione verso il Salento e il rifiuto di un soldato inglese di consentire l’accesso a Gerusalemme.”

Dalla lettura di questo articolo comparso su un giornale locale pugliese e scritto da Stefano Martella nel 2013, mi sorgono spontanee alcune domande:
– Com’é possibile che nel ’44, nel ’47, in un’ Italia devastata dalla guerra in corso o appena conclusa, sia stato possibile allestire un campo per 3000 profughi, in un paesino, ridente, costiero, che io ho visitato, ma comunque ancora piccolo oggi, una frazione di Nardò?
– Sicuramente gli aiuti del Piano Marshall sono stati determinanti, il dirottamento in Puglia di tante persone provate da anni di reclusione sarà stato deciso per avvicinarli alla futura destinazione in Palestina, ma la solidarietà e la vicinanza delle persone del posto, la loro accoglienza, la loro comprensione, ha fatto la differenza, ha ridato a quelle persone distrutte, senza futuro e senza passato, una ragione per tornare a vivere, per comprendere che non esiste solo un modello di persone capace di gesti efferati, senza pietà, prive di coscienza, incapaci di un gesto di pietà, la gente di questo piccolo paese ha ridato loro una SPERANZA e UNA RAGIONE PER CONTINUARE A VIVERE.

Non si sarebbe potuto ancora oggi ripetere il miracolo, dando speranza alle migliaia di persone che fuggono dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza, fornendo loro gli aiuti necessari direttamente , facendosi carico delle loro generalità, competenze, ascoltando le loro storie, i loro piani per il futuro, ricompattando i nuclei familiari,  invece di rispedirli da dove sono fuggiti, delegando ad altri sostegni economici, autorizzazioni e mezzi  per occuparsi di un’emergenza che non abbiamo voluto affrontare?

Franca Furbatto

Gesù di Giovanni Pascoli

sabato 26 Marzo 2016

Gesù

 

E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte,
il suo giorno non molto era lontano.
E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: Ave, Profeta!
Egli pensava al giorno di sua morte.
Egli si assise, all’ombra d’una mèta
di grano, e disse: Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta.
Egli parlava di granai ne’ Cieli:
e voi, fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.
Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste;
Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
-Il figlio Giuda bisbigliò veloce-
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra ‘piedi:
Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà.- Ma il Profeta, alzando gli occhi
-No-, mormorò con l’ombra nella voce,
e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.

Le campane, l’anima e la voce della nostra comunità

venerdì 25 Marzo 2016

 

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Il suono delle campane ha accompagnato da sempre i momenti lieti e tristi del singolo e della comunità, forte voce pubblica cristiana, che segnava le nascite, i battesimi, ma anche le morti, i funerali, l’agonia, il viatico, i matrimoni, l’Angelus, i Natali, le Pasque….
Mia madre racconta, in base ai suoi ricordi, che il suono delle campane era diverso, a seconda dell’annuncio che volevano trasmettere: ‘ l tripulin, segnalava la morte di un neonato, e questi annunci erano più frequenti di quanto si pensi negli anni 30 – 40, ora non si sentono più; poi c’era “la passa’” che annunciava la morte di un cristiano e persiste tutt’oggi. Le persone si “segnavano”, si facevano il segno di croce, affacciandosi alle finestre del centro, chiedendo: “Chi a l’è mortie?”. Un altro compito principale della campane era quello di suonare l’Angelus, tre volte al giorno: mattino, pomeriggio e vespro. In queste occasioni le persone si fermavano, ovunque fossero e recitavano l’Ave Maria, gli uomini con il cappello in mano.
Quando Don Claudio é arrivato a Volpiano, ci ha invitati a recitare un’Ave Maria alle ore 21 della sera, al suono delle campane: un modo per pregare insieme, tutta la famiglia riunita. Famiglia: luogo di accoglienza, di pace, di ritrovo, di condivisione, di Amore, un bel modo per raccontarci la giornata trascorsa.
Ben diverso era, ed é, il tocco delle campane che suonano a festa per annunciare la Pasqua: squarciando il silenzio dei giorni precedenti, annunciano con gioia l’incontro dei credenti con Cristo risorto.
Anche a Natale il suono é festoso, l’annuncio che portano é contagioso: é nato il Salvatore, pastori accorrete! Gente tutta, accogliete l’annuncio! Angeli contemplate la Gloria di Gesù!
Nella civiltà contadina le campane hanno sempre avuto il compito di suonare all’arrivo dei temporali e della grandine, nella speranza di allontanare questi fenomeni funesti e salvare il raccolto. Si suonavano anche in caso di pericolo, di peste, di incendio, per radunare la popolazione, o per invocare solidarietà, donando a chi le ascoltava un senso di appartenenza, di unità.
Ai fini civili, le campane sono state utilizzate per segnalare le ore, a volte le mezz’ore, l’entrata e l’uscita dei ragazzi a scuola, gli annunci importanti comunitari.
Le campane, come la chiesa, l’altare, il calice, venivano consacrate con l’olio santo, con un rito pontificale, che solo il Vescovo poteva eseguire.
Sulle campane venivano scritte frasi propiziatorie, se ne sono trovate diverse: “Lodo il Vero Dio, chiamo il popolo, riunisco il clero, intercedo per i defunti, scaccio la peste, adorno le feste”; su altre frasi tipo” Preghiamo per i defunti”; “Fuggiamo la peste”. E’ da appurare quello che c’é scritto sulle nostre cinque campane.
Per ora sappiamo che necessitano con urgenza di un intervento di manutenzione e di messa in sicurezza. E’ stata contattata la Ditta, tuttora esistente, che le aveva prodotte nel 1893, per conoscere i lavori da eseguire, ed é stato formulato un progetto. Non si tratta di cifre impossibili: il costo dovrebbe aggirarsi sui 63.000 euro, cifra che é stata raggiunta con il contributo e la generosità di molti.
Questa mattina sono state rimosse per prestare loro le cure necessarie, la dovuta pulitura e la sostituzione per altre. Occasione propizia quella pasquale, quando il silenzio scende mesto sull’intero paese e nei nostri cuori, nei tre giorni che precedono la Risurrezione di Cristo per poi esplodere in tutta la loro gioia il giorno di Pasqua.
Formulerei un augurio di speranza per tutti noi, un forte desiderio : che le campane del nostro campanile non smettano mai di suonare e porgerei un grazie doveroso alle vecchie campane, rimosse proprio questa mattina, dopo 120 anni di onorato servizio, protagoniste indiscusse della nostra vita quotidiana, protettrici della comunità, affinché esse continuino a vegliare su di noi, anche dopo la loro rimozione, solo da una prospettiva diversa……

“E’una bella cosa ascoltare il suono delle campane che cantano la
gloria del Signore da parte di tutte le creature. E poi ciascuno di noi
porta in sé una campana molto sensibile: questa campana si chiama
cuore. Questo cuore suona, suona e mi auguro sempre che il vostro
cuore suoni sempre delle belle melodie; melodie di riconoscenza, di
ringraziamento a Dio e di lode al Signore e che superi sempre le
melodie cattive di odio, di violenza e di tutto ciò che produce il male nel
mondo”.
(Giovanni Paolo II, parrocchia Santa Maria del Rosario di Roma”)

Buona Pasqua a tutti!

 

Franca Furbatto

ASPETTANDO LA PRIMAVERA

domenica 28 Febbraio 2016

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Mestieri nel presepe piemontese – parte quarta

lunedì 4 Gennaio 2016

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Continuiamo con i mestieri:

Il Carboné (il carbonaio) é una persona in carne e ossa, correlata all’azione del fuoco che si poteva incontrare nei boschi o per le strada, nel presepe però la figura risulta negativa perché i carboni, i tizzoni ardenti sono legati alle sofferenze delle anime del purgatorio e dell’inferno. Questa immagine ha reso il carbone il regalo ideale per i “bambini biricchini”, da parte della Befana. Quando i boschi erano più sfruttati la produzione del carbone di legno era piuttosto diffusa, essendo il carbone richiesto sia per usi domestici che industriali. La carbonaia veniva realizzata nel bosco in uno spiazzo attrezzato. Venivano piantati dei pali a terra a base quadrata, sui lati venivano posti pezzi di legno sovrapposti gli uni agli altri, fino alla cima dei pali, ricavando il braciere della carbonaia. Altri pezzi di legno in lunghezza venivano sistemati sino a formare un cono, come un camino. Per sigillare la struttura la si copriva di muschio, paglia, foglie e terra pressata. Si accendeva infine il braciere dall’alto inserendo delle fascine accese e pezzi di legno e si copriva con una lastra di pietra. Si praticavano dei fori dall’alto per attizzare il fuoco e controllare la combustione permettendo lo sfiato. Quando usciva un fumo azzurognolo si capiva che la combustione era terminata. La combustione durava parecchi giorni e i carbonai dovevano rimanere sempre attivi sul posto per controllare la combustione.

Il Babau (l’uomo nero) Viene rappresentato da una statuina di un uomo nero, con aria truce, vestito all’orientale, potrebbe rassomigliare a un re magio, ma l’uomo appare più dimesso. Adesso non é più presente, ma una volta appariva nei presepi piemontesi, soprattutto nella parte meridionale a rappresentare il cattivo, per impaurire i bambini più discoli. Figura che i nonni (di allora) invocavano per tenere i bimbi a bada. Secondo il tema della contrapposizione tra il bene e il male, la figura assume la parte del “cattivo”.

Il Vipré ( il cacciatore di viper) , ancora in attività oggi per fornire il veleno dei serpenti alle case farmaceutiche. I suoi terreni di caccia sono soprattutto le pietraie, i muretti a secco, i ruderi abbandonati, i prati ben esposti al sole, nei pagliai. Il cacciatore di vipere é dotato di un bastone biforcuto a una estremità, con il quale cerca di bloccare l’animale poco sotto la testa, una pecie di lunga pinza di legno e un vaso grosso o un sacco per mettere dentro la preda. Questo personaggio un po’ conturbante svolge nel presepe un ruolo importante perché introduce il “serpente”, cioé il diavolo tentatore. La figura del vipré assume un ruolo particolare perché  evoca, con la sua presenza, il compito di combattere il male, dedicando la sua intera vita e così dovrebbe essere per tutti i credenti.

Lo Spaciafornel (spazzacamino) L’uso dei camini per riscaldamento e per cuocere i cibi, rendeva tempo fa indispensabile la figura dello spazzacamino. Dovevano essere piuttosto numerosi per poter soddisfare tutte le richieste. Provenivano dalla Val Vigezzo e Cannobina , nel Verbano e dalla Valle dell’Orco, in Piemonte. Mestiere durissimo, impegnava da marzo a dicembre. Era un mestiere itinerante, ma per una strana ragione, pur rappresentando una figura  scura, coperta di fuliggine, ha sempre suscitato tenerezza. Soprattutto nella Valle dell’Orco gli spazzacamini si spingevano anche in altre regioni, Lombardia, Liguria, Francia e assoldavano i bambini, i gogn, perché con il loro corpicino riuscivano a penetrare tra le pareti strette dei camini, svolgendo un lavoro davvero infernale. Il ragazzino saliva sulle spalle del padrun e si arrampicava nei fornelli, carichi di fuliggine, tenendo gli occhi socchiusi per evitare che questa entrasse negli occhi……e aprendo un varco con degli attrezzi partcolari, giunto sul tetto gridava “spaciafornel”, in modo che il il padrone di casa capisse che il camino era stato disostruito. Scendendo raschiava la parete dello stesso camino per pulirlo da incrostazioni. Alla fine si raccoglieva la polvere che veniva venduta agli orefici per pulire i metalli e la parte più densa trovava uso per lavori particolari.

Direi che con lo spazzacamino ho finito la saga dei personaggi insoliti che difficilmente oggi troviamo ancora nei presepi, vuoi perchè si riferiscono a mestieri ormai scomparsi, vuoi per la mancaza di produzione di statuine raffiguranti queste arti. Mi é sembrato simpatico però scoprire, attraverso il libro “Presepi – i personaggi della tradizione piemontese” Guido Moro, le caratteristiche della composizione del presepe tipico delle nostre terre. Curiosità, fantasia, tradizione ricordi e fiaba sono stati i principi che hanno guidato  il mio breve viaggio attraverso le statuine di questo presepe immaginario che ho allestito in questi giorni con Voi, virtualmente. Ogni personaggio mi ha lasciato qualcosa di sé, qualche nota, qualche aneddoto, le loro dure vite; spunti eccezionali per creare e raccontare nuove fiabe alla mia nipotina, negli anni che verranno, tutte le volte che allestiremo insieme un nuovo presepe.

Ancora cari auguri a tutti per un Felice Anno!

Franca

 

Arrivano i dodici – Andersen

venerdì 1 Gennaio 2016

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Dodici in diligenza di H.C.Andersen

Era la notte di San Silvestro e l’orologio della chiesa aveva suonato allora i dodici tocchi. “Evviva, Evviva” gridava la gente in tutte le case della città, perché era l’ultima sera dell’anno; e allo scoccare della mezzanotte tutti riempirono i bicchieri e bevettero alla fortuna dell’anno nuovo. “Buon Anno, buon anno!” Era l’augurio di tutti: “Salute, pace e felicità… figli maschi e quattrini in quantità!” Tutti ripetevano l’augurio, i bicchieri si toccavano, tintinnando …..e proprio in quel momento, alla porta della città si fermava un carrozzone con dodici forestieri. Chi erano quei viaggiatori? Ciascuno aveva il suo passaporto ed il suo bagaglio; e portavano persino dei regali: per te, per me, per tutta la gente della città. Ma chi erano? Che volevano? Che cosa portavano poi?
“Buon anno!” gridarono alla sentinella ch’era di guardia alla porta della città.
“Buon anno! “ rispose la sentinella; e al primo che scese dalla diligenza:”Il suo nome e la professione?” domandò. “Veda Lei, nel passaporto!” rispose l’uomo: “lo son chi sono!” Ed era un bel tipo davvero, tutto ravvolto in una pelliccia d’orso e con gli scarponi col pelo: “ Sono colui su cui tanti e tanti concentrano le speranze. Venga da me domani, e le darò una bella strenna di capo d’anno. Spargo per tutto mance e doni, e faccio inviti a balli e a feste; ma più di trentuno non ne posso dare. Le mie navi sono in mezzo ai ghiacci, ma il mio studiolo è caldo e vi si sta bene. Sono negoziante all’ingrosso: il mio nome è Gennaio, e porto con me solo conti.”
Scese a terra il secondo; era un allegro camerata, impresario di teatri, direttore di balli figurati, anima di tutti i divertimenti possibili e immaginabili. Tutto il suo bagaglio consisteva in una grossa pentola. “Quando c’è questo, l’allegria non manca mai” diss’egli, “Voglio far divertire, ma voglio anche divertirmi, poi che ho poco tempo da vivere: di tutta la famiglia sono quello che vive meno, ventotto giorni soltanto. Tutt’al più, ogni tanto, mi buttan là un giorno per soprammercato; ma non ci conto molto, e faccio buon sangue egualmente. Urrà!”
“Non tanto chiasso! “ fece la sentinella.
“Posso fare quanto chiasso mi pare e piace! “ rispose il viaggiatore:
“Sono il Principe Carnevale, e viaggio incognito sotto il nome di Febbraio”.
Scese il terzo. Era magro come la Quaresima, ma stava impettito perché era parente dei Quaranta Cavalieri danesi, faceva lunari e prevedeva il tempo e le stagioni. Il mestiere, però, non era troppo lucroso, ed ecco perché consigliava tanto i digiuni. Portava all’occhiello un mazzolino di violette, ma piccine piccine e stente.
“Don Marzo, Don Marzo!” gli gridò il viaggiatore sceso dopo di lui, e gli batté sulla spalla: “Non senti che buon odorino? Va’ subito nella saletta dei doganieri: stanno bevendo un ponce, la tua bevanda prediletta. L’ho sentita alla fragranza. Corri, corri, Don Marzo!”
Ma non era vero niente; colui che parlava non voleva se non fargli una burla, uno dei suoi famosi pesci, perché aveva nome Aprile, e col primo pesce cominciava la sua carriera nella città. Sembrava molto allegro; lavorava poco, perché aveva più vacanze di tutti. “Basterebbe che ci fosse un po’ più di stabilità a questo mondo! “ disse.
“Ma talvolta siamo di umore gaio; tal altra uggioso, secondo le circostanze. Ora piove, ora fa sole; ora si sgombera, ora si torna. Io tengo una specie di agenzia di collocamenti, fitti e vendite, ed ho anche l’impresa dei trasporti funebri. Rido o piango, a seconda del momento. In questa valigia ho i miei vestiti da estate ma non sono tanto sciocco da mettermeli Eccomi qui! La domenica vado alla messa con le calze di seta a trafori e col manicotto”.
Dopo di lui, scese una giovinetta. Aveva nome Maggiolina, portava un leggero vestito da estate, d’un verde tenero e, sopra le scarpette, un paio di galosce. Nei capelli aveva un mazzolino di anemoni bianchi ed era tanto profumata di timo, che la sentinella starnutì.
“Dio vi benedica!” esclamò la fanciulla; e quello fu il suo saluto.
Com’era bella! E come sapeva cantare! Non era cantatrice da teatro, né da camera; era cantatrice di bosco, perché andava errando lietamente per la verde foresta e cantava per suo piacere. Nella borsetta da lavoro aveva due libriccini: Le incisioni di Christian Winther, perché sono come il bosco di faggi, e Le piccole poesie di Richardt, che sono come le stelline odorose.
“Ora arriva la signora, la giovane signora!” gridarono da dentro la carrozza, e così uscì la signora, giovane e snella, fiera e graziosa. Si vedeva subito che era nata per festeggiare i “sette dormienti”. Teneva un banchetto nel giorno più lungo dell’anno perché si avesse il tempo di mangiare le molte portate; poteva permettersi di viaggiare in una carrozza tutta sua, ma arrivò con la diligenza come gli altri, in tal modo voleva dimostrare di non essere altezzosa; del resto non viaggiava da sola, era accompagnata dal fratello minore Luglio.
Era questo un giovanotto grassoccio, vestito d’estate, con un grande cappello Panama. Non aveva che poco bagaglio, perché col caldo tutto dà noia, per ciò non portava con sé che le mutandine da bagno e quelle gli davano poco ingombro.
Poi arrivò madama Agosto, fruttivendola all’ingrosso, proprietaria di molti vivai di pesci, contadina in crinolina; era grassa e calda, partecipava a tutto, andava in giro con la botticella della birra fra la gente nei campi. “Con il sudore della fronte mangerai il pane” disse, “sta scritto nella Bibbia; poi si può anche fare il ballo nel bosco e la festa per il raccolto!” Era madama Agosto.
Poi scese ancora un uomo, pittore di professione, il maestro del colore, al bosco veniva detto che le foglie dovevano cambiare colore quando lo voleva lui, ma doveva essere bello; subito il bosco diventava rosso, giallo, marrone. Il maestro fischiava come lo storno nero, era un buon lavoratore e attaccava i pampini verdebruni di luppolo al suo boccale della birra, era un ornamento e lui aveva occhio per gli ornamenti. Eccolo lì con il suo vaso di colori, che era tutto il suo bagaglio.
Lo seguiva un signore di campagna, che pensava al mese della semina, all’aratura e ai lavori della terra- be’ anche un po’ al divertimento della caccia. Il conte Ottobre aveva con sé cane e fucile e la carniera piena di noci, che facevano un rumorino secco quando camminava. Portava un bagaglio di dimensioni incredibili, aveva persino un aratro di fabbrica inglese; e non parlava che di agricoltura, ma a mala pena si sentiva quel che diceva per la gran tosse e le rumorose soffiate di naso del suo vicino.
Quegli che tossiva così era Novembre, molto seccato da una tremenda infreddatura: tanto che portava un lenzuolo invece del fazzoletto. E, nonostante l’infreddatura, gli toccava andar in giro con le nuove cuoche e le domestiche, per condurle a far le provviste ed insegnar loro il servizio d’inverno. Diceva che si sarebbe liberato dai suoi malanni andando al bosco a far la legna: doveva spaccarla e segarla, perché era Gran Guardiano della Confraternita dei segantini e fornitori del focolare. Passava la sera a intagliare suole di legno per i pattini, perché sapeva bene, diceva, che tra poche settimane ci sarebbe grande richiesta di quel genere di calzature.
Infine comparve l’ultimo viaggiatore, il vecchio Nonno Dicembre, con lo scaldino in mano. Era tutto intirizzito, ma gli occhi gli brillavano vividi come due stelle e teneva tra le braccia un vaso di fiori, dove cresceva un piccolo abete. Diceva: “Avrò cura di quest’alberello, perché cresca bene, e per la sera di Natale possa arrivare con la vetta a toccare il soffitto e cresca con le candele accese, le mele dorate e i ritagli. Questo scaldino manda un calore, che pare una stufa… e io tiro fuori il libro delle fiabe e leggo ad alta voce così che tutti i bambini nella stanza rimangono in silenzio. E allora le figurine dell’albero di Natale diverranno vive, e il piccolo angelo di cera spiegherà le alucce di stagnola dorata e volerà giù dalla vetta dell’albero e bacerà grandi e piccini, tutti quelli che sono nel salotto caldo, ed anche i poveri bambini che stanno fuori, in istrada, e cantano il canto di Natale della stella di Betlemme”.
“Bene; ora la diligenza può andare!” disse la sentinella: “Tutti i dodici passeggeri sono scesi. Frusta cocchiere!”
“Prima bisogna che i dodici viaggiatori vengano qui da me!” disse il Gabelliere.
“Uno per volta! I passaporti restano a me. Ognuno è valido per un mese; finito il mese, scriverò sul passaporto le generalità e le note a seconda della loro condotta. Prego signor Gennaio, entrate pure!”E così entrò.
Finito l’anno, cari lettori, credo che sarò in grado di dirvi quello che i dodici viaggiatori avranno portato in dono a me, a voi, a tutti. Ora non lo so, parola d’onore; e sto per dire che forse non lo sanno nemmeno loro. Si vive in certi tempi cosi curiosi!

Franca – Auguro a tutti Voi un meraviglioso nuovo anno!

I mestieri nel presepe piemontese – terza parte

martedì 29 Dicembre 2015

presepe

Continuimo con la saga dei personaggi presenti nel presepe piemontese e alle figure scomparse ( da Presepe – I personaggi della tradizione piemontese – Guido Moro – Editore Priuli e Verlucca)

Il Lustrin (lustrascarpe) ancora nella prima metà del’900 contribuiva a creare l’atmosfera di strada, almeno nelle grandi città. La loro presenza, numerosa, si é indebolita con l’asfaltatura delle strade o la loro pavimentazione e con lo sviluppo della motorizzazione. In precedenza con la maggior parte delle vie in terra battuta, le scarpe si sporcavano facilmente; anche la pioggia e la neve contribuivano a sporcarle e il fango e la neve dovevano essere subito rimosse se non si voleva rovinare il cuoio, oltre che per una questione estetica e perciò si ricorreva con frequenza ai servizi dei lustrascarpe, che si trovavano ad ogni angolo di strada.
L’Arvendioira dij brichet (fiammiferaia). L’invenzione dei fiammiferi risale all’Ottocento e solo dalla metà di quel secolo iniziarono ad avere un’ampia diffusione, registrando nei cento anni successivi una crescita esponenziale. Uno dei pionieri fu un farmacista piemontese Domenico Ghigliano che nel 1832 studiò, primo in Italia e tra i primi nel mondo, una particolare formula di fiammifero a sfregamento, citata dalla Gazzetta del Regno di Sardegna. Nei primi decenni dell’Ottocento si usavano dei bastoncini di legno ricoperti di clorato di potassio e zolfo, che si accendevano, con non pochi rischi, per reazione chimica se immersi in acido solforico concentrato. Tra l’Ottocento e il Novecento ne comparvero di diversi tipi: i fiammiferi igienici, privi di fosforo bianco, o i fiammiferi impermeabili, in grado di accendersi anche in presenza di umidità. Anche le confezioni erano diverse , da quelle classiche a cassettino o con aletta, a quelle da borsetta, dotate di specchietto, dalle confezioni famiglia ai cilindri bossoli, alle bugie da poche, con un foro dove inserire una candela. I canali di distribuzioni erano diversi, compresi quelli ambulanti.
Il Sonador (musicante di strada) spesso si intrufolava nei cortili, eludendo la sorveglianza della portinaia e iniziava a cantare le sue canzonette, o arie di opere, accompagnandosi con l’organetto, il violino, il mandolino o la fisarmonica. Non sempre le sue esibizioni erano gradite e allora arrivava il perentorio ordine ” va a canté ant n’autra cort”, espressione diventata poi di uso comune quando si voleva invitare qualcuno ad allontanarsi. Diversi sonador si esibivano per strada, fermi o muovendosi a piedi, in bicicletta o trascinando un carrettino con un organetto a canne o una pianola…..Certi si esibivano camminando e suonando contemporaneamente usando più strumenti legati con cinghie a braccia e gambe. Talvolta veniva richiesta la loro presenza nelle osterie per allietare una festa e intrattenere i clienti. Non poteva mancare la loro presenza nelle fiere e nelle feste patronali.
L’Arvendior ed le mistà (rivenditore di immagini religiose). Il periodo tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e la prima guerra mondiale é probabilmente quello di maggior diffusione delle mistà, cioé le immaginette religiose. L’arvendior era una figura presente nei mercati, nelle fiere e nelle feste patronali, anche se le immaginette venivano distribuite attraverso gli ordini religiosi, in prossimità dei santuari, dai mendicanti che li ricambiavano per un obolo. I santini venivano raccolti in scatole di latta, tra le pagine del messale, esposti nelle case e nelle stalle a protezione di persone e animali. Nel Settecento le immagini relative alla Natività presentano un ampio ventaglio di soggetti e tecniche . Il ricorso a pizzi e decori traforati, li trasformava in vere opere d’arte. Nell’Ottocento con la scoperta della stampa cromolitografica, la produzione si fa copiosa, per’altro scompaiono i pizzi e i trafori, le stampe sono a colori su semplici cartoncini. La minore originalità dell’immagine , lascia spazio alla preghiera, sono proprio di questo periodo le orazioni, tra l’Ottocento e il Novecento.
Il Confratel ( il confratello). Personaggio che rappresenta i membri della confraternita della misericordia o di altre congregazioni. Queste figure assistevano i moribondi, gli indigenti, i malati e soprattutto i condannati alla pena capitale, fornendo loro conforto nel momento del “trapasso”. Era una figura presente nei presepi piemontesi.
Giampé Tadé figura vagante con forte valenza simbolica, non più presente negli attuali presepi. Tale figura rappresentava i Giudei che schernirono Gesù, a cominciare dalla figura di colui che non gli concesse un momento di riposo, impedendogli di appoggiarsi alla porta di casa, mentre saliva al calvario. Costui schernì Gesù e gli impose di proseguire il cammino senza fermarsi, al che Gesù rispose ” per questo camminerai fino alla fine del mondo” e da allora Giampé Tadé vaga senza sosta, angosciato e stanco, senza avere la possibilità di riposarsi. Il personaggio trasmette in modo incisivo il messaggio della punizione divina, che ancora in un recente passato suscitava nei credenti timori e paure tali da condizionarne il comportamento.
Zelomi la levatriss (levatrice) Il messaggio della purificazione , la liberazione dal peccato ritorna con la figura di Zelomi, la levatrice citata nei vangeli apocrifi dell’Infanzia e testimone del parto della Vergine. Nel Protovangelo di Giacomo si racconta che Giuseppe, all’approssimarsi del parto, sia andato alla ricerca di una levatrice e si imbatté in Zelomi, che lo seguì nella capanna, dove già stava nascendo Gesù. Entrata nella grotta si rese conto di aver assistito ad un evento straordinario, per opera dello Spirito Santo. Zelomi porta sottobraccio un cesto con vari panni , sarebbero quelli utilizzati durante il parto, che la levatrice laverà, così come aveva lavato in precedenza il neonato Gesù.

Franca

Mestieri presepi – seconda parte

lunedì 28 Dicembre 2015

statu 2 statua 1 statua 4 statu 3

Continuiamo con la saga dei mestieri presenti nel presepe piemontese e ormai scomparsi……

Il Parapiové (l’ombrellaio). La patria degli ombrellai risulta essere il Vergante, la zona montuosa che si affaccia sul Lago Maggiore, nel tratto tra Arona e Baveno. Pare che gli ombrellai fossero già attivi nel ‘700, in questa zona, spinti dai consueti problemi di sopravvivenza. L’ombrello, parasole, ha origine molto antiche, il parasole é nato in Oriente millenni prima della nascita di Cristo ed era simbolo di potere e veniva usato nelle cerimonie più importanti. Era comunque considerato nell’ 800 – 900 un accessorio importante, praticamente obbligatorio, da qui la grande diffusione. Ne esistevano di diversi modelli, soprattutto nella versione parasole. Da qui l’esigenza di bravi riparatori specializzati, che si spostavano di paese in paese con la loro attrezzatura a tracolla. Pare portassero con sé l’immagine di Santa Barbara, la loro protettrice affinché li prooteggesse durante il viaggio e un rimedio contro il morso dei cani, piuttosto frequenti. Dopo anni di lavoro ambulante alcuni riuscirono ad aprire una loro bottega a Torino e anche in provincia. Noi ricordiamo il padre di Adelina, nostra carissima concittadina, proveniente, se non sbaglio, proprio da quei luoghi,  che era arrivato qui a Volpiano durante i suoi trasferimenti di paese in paese e qui si fermò, dando vita alla sua attività, e richiamando a sé la sua famiglia.

Il Socolé ( riparatore di zoccole). Trattasi di fabbricante o riparatore di zoccole, calzature molto usate non solo dai montanari e contadini piemontesi, ma pure dai popolani delle città. I soco ( da uomo) erano una sorta di scarponcelli con suola di legno e tomaio in pelle nera, dotati di legacci, le socole ( da donna) sembravano invece robuste ciabatte, aperte posteriormente, sempre con suola in legno e tomaio in pelle nera, ma senza legacci. In alcune zone del Piemonte venivano anche usati i sabots, zoccoli ricavati direttamente nel legno, la cui produzione é tipica valdostana, della Val d’Ayas, ma presto diffusasi anche nel Canavese, poi nel Monferrato e nel  Vercellese. Il lavoro per la realizzazione degli zoccoli avveniva nella stalla, d’inverno, al caldo, appoggiati su un ceppo di legno privo di radici e corteccia. Si iniziava dalla suola, ricavata in pezzi di legno lunghi ca. 35 cm. che venivano portati a misura del piede (occorrevano un paio di ore), quindi utilizzando modelli già pronti, si tagliava la pelle del vitello e si realizzava il tomaio, poi inchiodato sulla suola. Si fissava un listello di ferro o di rame sulla punta, per evitare che lo zoccolo si rompesse quando veniva battuto per staccare la neve. Anche la suola veniva chiodata, talvolta, per non scivolare sul ghiaccio.

Il Cioaté (chiodaio) é il fabbricante di chiodi nelle sue diverse forme e dimensioni, oggetto utilissimo e di frequente impiego. Nel presepe vuole anche ricordare il dolore inflitto a Gesù sulla croce. La produzione di chiodi era piuttosto diffusa in Piemonte, a Traves ne divenne una specializzazione e così nelle Valli di Lanzo in generale. In passato i chiodi venivano prodotti artigianalmente ad uno ad uno, partendo da una verga arroventata di ferro, che veniva battuta e modellata sui quattro lati, utilizzando un martello particolare. Nell’apposita chiodaia, si provvedeva a staccare il pezzo forgiato e a dotarlo di testa. Un lavoro di pazienza, che fatto oggi avrebbe un costo altissimo.

Il Cartoné (il carrettiere) Prima dell’avvento dei camion e dei trasporti terrestri, esistevano i carri trainati da cavalli. Spesso si incontravano nelle vie cittadine, ma soprattutto lungo le strade polverose di campagna, con i loro carichi, su sentieri impervi, nei tratti in salita. Alla loro guida i carrettieri, uomini robusti, resistenti alla fatica, il loro lavoro non aveva mai sosta: di notte e di giorno, con qualsiasi tempo e stagione. Possedevano un abbigliamento semplice, ma avevavno un elemento distintivo, una fascia rossa in vita. Se c’era maltempo si proteggevano con l’ombrello o con una mantellina cerata e provvedevano alla copertura della merce trasportata. Nei tratti in pianura talvolta si fermavano per far riposare i cavalli e ne approffitavano per mangiare il classico pane e salame e bere un bicchiere di vino spillato direttamente dal barilotto sempre presente sul loro carro.

Il Cabassin (il facchino) é l’antico nome piemontese del facchino, derivato appunto dalla cabassa, la grande gerla conica con la quale trasportava ogni sorta di oggetti e merci, su brevi e medie distanze  e su cui  si sedeva per riposarsi nelle pause di lavoro, in attesa di clienti. In passato dovevano essere molto numerosi e la loro attività apprezzata, tanto da essere riprodotti tra i pochi mestieranti, con le lavandaie nelle ottocentesche tavole di Gallo Gallina. Venivano chiamati anche gamal, porteur. Provenivano dal Verbano, Miazzina, dove é stata più alta la provenienza di abitanti dedit al facchinaggio, tanto da essere considerata una vera e propria specializzazione. Attività peraltro presente già nel ‘ 600, se non ancora prima…

Alla prossima…….

 

Franca

 

La letterina a Babbo Natale, ritrovata

sabato 26 Dicembre 2015

Babbo Natale

Chi crede ancora nella magia del Natale, sa che ogni tanto avvengono dei piccoli miracoli – chiamatele coincidenze se siete più scettici – che fanno bene al cuore. Ebbene è stata da poco ritrovata una letterina indirizzata a Babbo Natale risalente, pensate, ai primi anni del 1900.
La toccante storia arriva direttamente da New York, o meglio da un camino che il signor Peter Mattaliano stava pulendo in vista delle feste: durante le operazioni di pulizia della canna fumaria, ha scoperto i resti di una letterina a Santa Claus datata 1905 o 1906, scritta da due fratellini di 6 e 9 anni, Alfred e Mary McGann.
I bimbi erano figli di immigrati irlandesi cattolici, di origini umili, ma ciò nonostante molto generosi anche con chi era meno fortunato di loro. Nella parte finale della missiva, infatti, si legge: “Ti prego non dimenticarti dei poveri”, un augurio da parte della piccola Mary che ha iniziato con “Caro Babbo Natale, sono molto contenta che stai arrivando stasera. Mio fratello vorrebbe che tu gli portassi una macchina, ma so che non puoi permetterla quindi portagli quello che credi sia meglio”.
Alfred, dal canto suo, chiese un tamburo e altri semplici doni. Il signor Mattaliano – anche lui originario di una famiglia di immigrati – è andato in fondo alla storia e con l’aiuto degli archivi e di alcuni ricercatori del New York Times, ha scoperto che i bimbi avevano perso il papà nel 1904, che Mary ha lavorato come stenografa e Alfred in una copisteria e che sono morti negli anni ’80 nel Queens senza figli.
L’uomo è uno sceneggiatore e ha tutta l’intenzione di far conoscere al mondo la storia della famiglia McGann; sta infatti cercando finanziatori per promuovere il progetto e al NYT ha dichiarato: “Sarà un messaggio che servirà a infondere generosità e speranza negli altri, una sorta di testamento di umili immigrati di New York”.

funweek.it – Franca