Questo é il racconto che si é classificato al terzo posto, al concorso letterario Unitre Moncalieri, al quale alcuni di noi, hanno partecipato:
I ragazzi del ‘ 99
« I giovani soldati della Classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico e sul fiume che in questo momento sbarra al nemico le vie della Patria, in un superbo contrattacco, unito il loro ardente entusiasmo all’esperienza dei compagni più anziani, hanno trionfato. In quest’ora, suprema di dovere e di onore nella quale le armate con fede salda e cuore sicuro arginano sul fiume e sui monti l’ira nemica, facendo echeggiare quel grido “Viva l’Italia” che è sempre stato squillo di vittoria, io voglio che l’Esercito sappia che i nostri giovani fratelli della Classe 1899 hanno mostrato d’essere degni del retaggio di gloria che su loro discende.
Zona di guerra, 18 novembre 1917 – Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito – Armando Diaz.
Alla lettura del proclama dal balcone del Municipio di Volpiano, da parte del sindaco, di fronte ad una ristretta cerchia di concittadini, si elevarono grida di giubilo e di entusiasmo. Solo Matilde in quel trambusto, si sentì mancare. Fu subito soccorsa dalla madre e riaccompagnata a casa, sotto lo sguardo interrogativo del padre, presente all’evento. Una volta a casa, la ragazza riprese colore e vigore, ma le domande della madre si facevano incalzanti e richiedevano una spiegazione. La giovane tra le lacrime dichiarò di essere incinta di qualche mese e di essere intenzionata a portare avanti la gravidanza, perché il suo bambino era frutto dell’amore che nutriva per Francesco, un amore corrisposto e sincero. Francesco però al momento non sapeva nulla del suo stato, in quanto era partito per il fronte proprio qualche mese prima. Matilde era certa del suo amore e sapeva che al suo ritorno, quando la guerra fosse finita, si sarebbero sposati, perché era ciò che più desideravano. Potete immaginare lo sconcerto della madre di fronte a quella dichiarazione, visto che non aveva mai approvato quell’unione sin dagli inizi ed inoltre non sapeva come affrontare il marito, fermo nelle sue convinzioni, sapendo che mai e poi mai avrebbe approvato quell’unione. Inoltre era anche preoccupata per i pettegolezzi della gente e per il futuro, ormai compromesso della figlia. La nonna paterna si offerse di rivelare il tutto al figlio e di accogliere presso di sé, a Torino, la nipote alla quale era molto legata. E così fu deciso.
Purtroppo non ci fu ritorno per Francesco perché di lì a poco giunse la notizia della sua morte in trincea. Le pressioni su Matilde, da parte della famiglia, si intensificarono: volevano che abbandonasse il bambino appena nato, per poter affrontare il futuro, senza pesi e ostacoli. Avrebbe comunque potuto fare un buon matrimonio, tenuto conto della sua posizione sociale, dell’istruzione ricevuta e della sua giovane età e bellezza. Matilde non volle sentire ragioni, sprofondata nel suo dolore per la perdita del suo giovane amore, con l’appoggio affettivo ed economico della nonna, portò a termine la gravidanza, partorendo nel maggio successivo, 1918, una bella bambina, a cui fu dato nome Maria Cristina. Non ritornò più a Volpiano.
Nello stesso anno, a novembre, finì la guerra, segnando il ritorno a casa dei soldati. Anche Pietro, l’amico fraterno di Francesco, rientrò in paese e fu messo al corrente di quanto era accaduto a Matilde, anch’essa sua amica. Non si sentì però di affrontarla, di spiegarle come Francesco fosse morto tra le sue braccia, pronunciando il suo nome; quei ricordi facevano troppo male, preferiva ricordare l’amico nei momenti felici della loro giovinezza, in quella età spensierata che avevano condiviso con Matilde, sin da ragazzini.
Pietro e Francesco, infatti, erano come fratelli, cresciuti insieme, vicini di casa, classe 1898 Pietro e 1899 Francesco, avevano condiviso le stesse amicizie, la scuola, le stesse avventure, si erano impegnati nelle stesse attività. Le rispettive famiglie contadine abitavano in una grande corte, nel centro del paese. Erano una grande famiglia, si conoscevano tutti, anche perché le principali attività venivano svolte davanti a casa: chi faceva il maniscalco, chi il fabbro, chi il sellaio, chi il falegname. Esisteva vera amicizia e solidarietà tra le famiglie. Le donne più anziane si occupavano dei bambini, mentre le giovani si recavano nei campi a lavorare. Se qualcuno stava male ed era solo, a turno ci si occupava di lui, portandogli da mangiare e rassettandogli la casa.
I nostri ragazzi erano cresciuti così, in questo contesto anche se erano molto diversi tra di loro, ma forse per questo erano inseparabili. Pietro era riflessivo, gran lavoratore, propenso più ad ascoltare che a parlare, profondamente rispettoso e timido, scuro di carnagione, non appariva particolarmente forte, anche se godeva di buona salute. Francesco, l’esatto contrario: bello, il ritratto della salute, con un sorriso smagliante e contagioso, simpatico da morire, molto intelligente, una parlantina eccezionale, ma altrettanto sbruffone e incline a cacciarsi nei guai. Molte volte Pietro l’aveva aiutato a togliersi d’impiccio, visto che vegliava su di lui, come un fratello.
Entrambi si erano innamorati della stessa ragazza: Matilde, figlia della loro maestra e coetanea di Francesco. Bella da lasciare senza parole, bionda, capelli ricci, occhi azzurri, intelligenza brillante e personalità spiccata, aveva studiato in collegio, ma le vacanze estive le aveva sempre passate in paese, la sua famiglia si aspettava grandi cose per il suo futuro.
Matilde aveva capito ben presto la simpatia che entrambi i ragazzi nutrivano per lei e proprio in funzione dell’amicizia che li legava, da quando erano bambini, non tardò ad esprimersi e scelse Francesco come fidanzato , ascoltando il suo cuore; sicura che Pietro, col tempo avrebbe conosciuto una brava ragazza, giusta per lui. Di lì in avanti Matilde e Francesco avevano pensato a vivere la loro storia d’amore, incuranti della guerra in corso, degli ostacoli derivanti dai loro diversi ceti sociali, dei divieti provenienti dalla famiglia di lei. Cercavano solo di passare più tempo possibile insieme.
Pietro nel frattempo era partito per il fronte nel 1916, si erano salutati con Francesco, con un forte abbraccio, che esprimeva tutta la loro amicizia, trattenendo le lacrime per rendere il loro distacco meno doloroso. Anche Matilde l’aveva salutato, augurandogli buona fortuna; avrebbe pregato per lui e gli fece promettere di occuparsi di Francesco, se mai fosse stato chiamato anch’esso alle armi e destinato al suo stesso reggimento.
Intanto i mesi passavano, giunse così l’estate del ’17, la guerra incombeva, anche se combattuta lontano dal loro paese; le notizie che arrivavano dal fronte non erano per niente rassicuranti, ma la voglia di stare insieme di Francesco e Matilde, di incontrarsi ogni giorno, di godersi la loro gioventù, la bellezza di lei, il gran desiderio di entrambi, fecero sì che i ragazzi vivessero appieno il loro amore, donandosi l’un l’altra con slancio ed innocenza, promettendosi amore eterno.
Di lì a poco successe tutto quanto, inconsciamente avevano previsto: Francesco, abile e arruolato fu inviato sul Piave, nel settembre del ’17, raggiungendo l’amico Pietro, stesso contingente. Francesco arrivò al fronte con lo stesso impeto di quel fiume che avrebbe dovuto difendere, con passo poco marziale forse, ma con tanto entusiasmo e generosità, tipico di quella età e del suo carattere.
Purtroppo nel novembre del ’17, vuoi il rapido addestramento, vuoi l’incoscienza dell’età, vuoi il destino crudele, Francesco perì a Fossalta di Piave, insieme ad altri suoi compagni, vittima di una granata nemica. Pietro da quando era arrivato non l’aveva perso di vista un attimo, gli aveva insegnato tutto quello che aveva imparato e gli raccomandava continuamente prudenza. In quell’occasione era stato assoldato per un’ incursione nelle linee nemiche e aveva lasciato l’amico al riparo. Al suo ritorno la tragica scoperta: la trincea distrutta, molti compagni morti e feriti. Francesco era ancora vivo, ma colpito irrimediabilmente al petto da una scheggia, aveva incontrato gli occhi dell’amico per un’ultima volta, quasi a scusarsi di non essere riuscito a salvare la pelle e poi aveva accennato ad una canzone che cantava spesso:
” Novantanove, m’han chiamato…. date un bacio alla mia mamma, a Matilde e alla bandiera tricolor…..” ed era spirato tra le sue braccia. Pietro era sconvolto, impietrito, continuava a scuotere il corpo senza vita dell’amico, incapace di accettare una morte così assurda ed inutile.
Terminata la guerra Pietro fece ritorno a casa, ma i suoi vent’anni erano spariti, li aveva lasciati al fronte, assieme ai corpi martoriati e trafitti di tanti giovani che avevano perso la vita in modo così crudele; tante vite e destini spezzati, portati via per sempre. La morte dell’amico che riviveva ad ogni istante , notte e giorno, lo angosciava profondamente. Ogni giorno, nel cortile di casa, incrociava lo sguardo della madre di Francesco, che sembrava chiedergli perché lui era tornato e suo figlio no. Non resistendo più a tanto dolore, decise di lasciare il paese e di trasferirsi in città; in fondo possedeva un mestiere: il falegname, ma era pronto a fare qualsiasi lavoro. Trasferitosi in città trovò un posto come operaio presso la regia manifattura tabacchi, in un borgo operaio e anno dopo anno riuscì a placare gli incubi notturni e i sensi di colpa che lo perseguitavano. Non viveva, si lasciava vivere.
Fu per caso che incrociò Matilde, con la sua bambina, all’uscita del cimitero monumentale a Torino, dove si era recata per portare un fiore sulla tomba di suo padre, morto da poco. Entrambi erano profondamente cambiati. Nonostante la tristezza che appariva evidente sul volto di Matilde, la sua bellezza era ancora intatta. La bambina, poi era il ritratto di Francesco, stessi occhi, stessi capelli, stessa simpatia dirompente. Fu la bambina a rompere gli indugi e ad invitarlo a prendere una cioccolata da loro e a sentirla suonare il piano la domenica successiva, fornendogli l’indirizzo e le indicazioni per arrivarci. Pietro non si presentò quella domenica a casa di Matilde, nonostante le promesse fatte a Maria Cristina, non lo ritenne opportuno, in cuor suo non si era ancora perdonato, anche se il desiderio di rivedere Matilde e la sua bambina erano forti. Passarono ancora altri anni e le vite dei due scorrevano su binari distanti. Pietro, capace e affidabile nel suo nuovo lavoro, aveva presto ottenuto un posto di responsabilità all’interno della manifattura, si era applicato anche nello studio, diventando responsabile di un gruppo di lavoro.
Matilde era diventata maestra, come la mamma ed insegnava a Torino, vicino a casa. Dal centro venne poi trasferita in una scuola di periferia, la Cesare Abba di recente apertura, con un’utenza di bambini provenienti da famiglie operaie, nel quartiere Regio Parco. Fu qui che avvenne il loro secondo incontro: amichevole, ricco di commozione, entrambi parlarono del loro lavoro; Pietro si scusò per il mancato appuntamento di qualche anno prima e chiese notizie di Maria Cristina, non parlarono di Francesco; ma misero le basi per un successivo incontro. E qui si perdono le tracce dei nostri due amici, ma c’e’ un epilogo in questa vicenda che mi ha fornito mia madre, sapendo che mi stavo occupando di questa storia. Durante una visita al cimitero di Volpiano, mentre facevamo un saluto ai nostri cari, mamma mi segnalò una cappella familiare piuttosto vecchia, elegante, portava una scritta: Famiglia Ferraro e all’interno incuriosita, ho trovato sulle lapidi questi nomi: Pietro Ferraro, cavaliere del lavoro, morto nel 1950 a Torino; Matilde Ricca in Ferraro, morta nel 1963 a Volpiano; Francesco Ferraro nato nel 1930, morto nel 1986 a Volpiano; Maria Cristina Ferraro, nata a Volpiano nel 1918 e morta a Torino nel 1990. Appresi così il lieto fine della storia: quindi Pietro e Matilde, alla fine si sposarono ed ebbero un figlio, che chiamarono Francesco, in ricordo del loro amico e amore. Anche Maria Cristina ottenne il cognome di Pietro, pur avendo avuto come padre Francesco. Osservai con attenzione le foto, seppur sbiadite, sulle lapidi, cercando di scorgere nostalgia, rimpianto, ma dai loro sguardi traspariva solo serenità e pace. Più avanti in un’altra lapide, in direzione della prima cappella, mia madre mi indicò la foto di un ragazzo: bello, sguardo fiero, vestito da soldato, morto nel novembre del 1917 a Fossalta di Piave: era la tomba di Francesco Bertino, parente di mio nonno, che da lontano vegliava sui suoi cari. Con il ritrovamento di queste immagini avevo dato un volto ai protagonisti di una vicenda familiare, particolarmente toccante che mia madre mi ha raccontato più volte negli anni.
Franca Furbatto